Facebook vale 50 miliardi di dollari? L’interrogativo rimbalza sui mercati finanziari e riapre una ferita non ancora rimarginata, quella della bolla tecnologica che lievitò negli ultimi anni del secolo scorso e che cominciò a sgonfiarsi il 13 marzo del 2000. Migliaia di investitori andarono sul lastrico e si chiesero come avessero potuto credere che il successo di pubblico registrato da molte aziende sul web potesse trasformarsi in una miniera d’oro. La mossa di Goldman Sachs, che ha deciso di investire 450 milioni di dollari nella società di Mark Zuckerberg, fissando così a 50 miliardi di dollari il suo valore, ha riportato agli onori della cronaca la tragedia vissuta nel 2000.
Allora il dorato mondo di Internet era popolato di giovani “nerd” che lanciavano geniali startup prive di adeguati modelli di business. Il nerd di oggi, Mark Zuckerberg, all’epoca aveva 16 anni: nel 2004 fondò Facebook e oggi la sua creatura è il principe dei social network, frequentato da quasi 600 milioni persone nel mondo. Siamo di fronte a una nuova bolla? Il 90% degli investitori intervistati dall’agenzia economica Bloomberg afferma che la valutazione di Facebook è eccessiva. Oltre la metà si spinge a dire che si tratta di “una pericolosa bolla”. Solo il 17%, nonostante qualche cautela, si dice convinta che un nuovo boom è alle porte. Ma veniamo ai fatti. I pochi dati forniti da Goldman non sono di per sé convincenti. Nei primi nove mesi del 2010 Facebook ha realizzato 355 milioni di dollari di utile su un fatturato di 1,2 miliardi. Si prevede che a fine 2010 i due valori possano toccare i 500 milioni e i due miliardi. Una valutazione da 50 miliardi significa perciò 25 volte più del fatturato. Un’esagerazione, secondo i parametri normali. Per Google, che ha ormai superato i dieci anni di età, il rapporto è uno a nove, assai più ragionevole.
Ma è proprio il caso Google a convincere molti investitori che forse vale la pena di rischiare. Quando l’azienda di Larry Page e Sergey Brin andò in borsa (era l’agosto 2004), una sua azione valeva 85 dollari e a molti pareva eccessiva. Nel primo anno triplicò il valore e passò a 280, oggi oscilla intorno ai 615-620, oltre sette volte il valore iniziale. Nella comunità finanziaria lo chiamano “effetto Google” e Goldman Sachs lo usa a piene mani per convincere gli investitori stranieri a rischiare almeno due milioni di dollari ciascuno nell’azienda di Zuckerberg, con l’obbligo di non cedere le azioni almeno fino al 2013. In totale Goldman cerca di vendere 1,5 miliardi di dollari di quote sul mercato secondario in giro per il mondo ma non negli Stati Uniti, dove la Sec potrebbe chiedere più trasparenza di quanto Zuckerberg sia disposto a concedere.
La data della quotazione non è ancora nota. Sui giornali della Silicon Valley si parla dell’aprile 2012, ma sono solo voci e sembra che Zuckerberg freni. Vuole rinviare quel momento nella certezza che il popolo di Facebook cresca ulteriormente e il modello di business diventi più chiaro. Intanto l’annunciata quotazione di Facebook mette le ali al mercato e spinge molte altre aziende Web 2.0 ad accelerare il percorso verso Wall Street.
La settimana scorsa a Davos Reid Hoffman, fondatore di Linkedin (e prima di PayPal) annuncia di volere portare l’azienda a Wall Street nei prossimi mesi. Il sito è ormai frequentato da oltre 100 milioni di utenti, una gigantesca rete di professionisti che condividono il proprio curriculum e lo mettono a disposizione delle aziende. Uno strumento ormai indispensabile per chi cerca talenti da assumere. Il fatturato di Linkedin è raddoppiato nei primi sei mesi del 2010, fino a toccare i 161,4 milioni di dollari. Il profitto dichiarato alla Sec ammonta a 1,85 milioni di dollari: abbastanza per dichiarare un valore di 2,2 miliardi di dollari? Molti analisti pensano di sì.
Numerose aziende sono diventate leader in alcuni business di nicchia dove ormai vantano una posizione di monopolio. Una di queste è Groupon, che a dicembre ha rifiutato un’offerta da sei miliardi di dollari proveniente da Google e sembra volersi quotare entro la fine dell’anno proponendo una valutazione intorno ai 15 miliardi. Come antipasto, recentemente ha raccolto 950 milioni da gruppi di investitori privati. Groupon, che opera anche in Italia, viene descritta come “una società di coupon online”. Fondata nel 2008 dal trentenne Andrew Mason, conta già 50 milioni di utenti: ogni giorno mette in contatto gruppi di possibili compratori con aziende in grado di praticare grandi sconti se si raggiunge un numero minimo di acquirenti. In vendita c’è di tutto, da una settimana presso una Spa a una cena in un ristorante di lusso. Groupon tiene per sé una bella fetta degli introiti, fino al 50 per cento del totale.
Poi c’è Twitter, che punta a quotarsi in autunno, con una valutazione che oscilla dai 3,5 ai 4 miliardi di dollari. E Zynga, grande fornitore di giochi su Facebook e MySpace, fondata da Mark Pincus nel 2007: nel 2010 il suo fatturato ha superato i 500 milioni di dollari, e la valutazione prevista, entro fine anno, potrebbe toccare i cinque miliardi. Indipendentemente dalla congruità del valore chiesto al mercato, si va diffondendo l’idea che la nuova ondata di aziende Web 2.0 abbia ormai individuato modelli di business praticabili: tutti basati, in ogni singola nicchia, su una grande platea di utenti di cui si conoscono con grande dettaglio i profili. Questo ha creato un nuovo clima di fiducia tra gli investitori americani, e le società di venture capital, nei primi nove mesi del 2010, hanno investito 19 miliardi di dollari nelle nuove startup tecnologiche, il 30 per cento in più rispetto all’anno precedente.
L’ottimismo cresce, e questo ci riporta a Facebook che alla fine del 2010 ha superato Google, negli Usa, per il numero di visite. I suoi 600 milioni di utenti passano in media sei ore al mese su Internet (in Italia, per i 18,7 milioni di utenti le ore sono 8,45, secondo Audipress). Ma perché questa pur immensa rete di relazioni sociali dovrebbe valere 50 miliardi di dollari? Recentemente Sergey Brin, uno dei due fondatori di Google, ha affermato che quanto realizzato dai social network fino a oggi è «solo l’uno per cento di quanto si potrà fare». Che cosa intende? Per ora il modello di business di Facebook, come quello di Google, è fondato soprattutto sulla pubblicità. Ma le cose stanno cambiando. Solo per fare un esempio, in estate Facebook ha messo in circolazione i suoi “crediti virtuali” che gli utenti dovranno pagare con moneta reale usando le loro carte di credito o acquistando carte prepagate messe in vendita presso grandi supermarket come Walmart. In pratica Facebook ha deciso di battere moneta, come se il suo fosse davvero un Paese con una popolazione doppia rispetto agli Stati Uniti e dieci volte quella dell’Italia. All’inizio questa moneta servirà a comprare merci virtuali utili nei giochi online (per esempio quelli di Zynga): 200 milioni di utenti di Facebook partecipano a giochi online ogni mese, e il mercato delle merci virtuali, solo negli Stati Uniti, vale già oggi 1,7 miliardi di euro, in rapida crescita. È interessante sottolineare che – almeno all’inizio – Facebook imporrà un balzello (una sorta di imposta) del 30 per cento su ogni acquisto.
Ma presto il mercato Facebook potrebbe evolvere. E la moneta di Zuckerberg potrebbe diventare indispensabile per acquistare merci vere sul mercato che Facebook potrebbe creare all’interno delle proprie mura digitali sulla scia di Apple, Amazon, eBay. Facebook conosce i suoi utenti meglio di chiunque altro. I suoi server contengono i diari personali, i dialoghi e le preferenze di un’immensa comunità di individui. I suoi software sono in grado di fornire profili individuali e di massa con una raffinatezza che nessuna azienda di marketing ha mai neppure potuto sognare. Per questo Zuckerberg non vuole accelerare i tempi. Le barriere della privacy si vanno abbassando in tutte le fasce di età, specie tra i giovani. Ma non bisogna esagerare. Ogni cosa a suo tempo.