DUBAI CITY. «Non sciiti e non sunniti, siamo tutti cittadini del Bahrain». I manifestanti anti governativi della Rotonda delle Perle, la piazza Tahrir di Manama, la capitale, sono accampati qui da più di una settimana e nei loro striscioni hanno chiesto, finora, una sola cosa: pari diritti tra tutti i cittadini. Nella piccola e ricchissima isola stato del Bahrain, il 70 per cento della popolazione, su un totale di poco più di 700mila abitanti, è sciita, ma il potere e la ricchezza è da sempre in mano ai sunniti (il Pil procapite è di oltre 34 mila dollari). Mohamed ha 25 anni, è sciita e attraverso un blog racconta il malcontento che negli anni si è radicato tra i giovani come lui: anche chi studia e ha una laurea, trova lavori poco qualificati, sottopagati e finisce a vivere in alloggi fatiscenti, ai margini della città o nei villaggi dell’isola di Sitra. Al contrario, i suoi coetanei sunniti occupano gli impieghi pubblici, hanno assistenza sanitaria, casa e pensione assicurata. Hassan, nonostante la laurea in psicologia, ha perso la speranza di trovare un lavoro e, racconta nello stesso blog, non riesce ad aiutare economicamente la sua anziana madre, che vive in una casa di mattoni in mezzo al deserto. Niente a che vedere con i luccicanti grattacieli di acciaio e vetro di Manama.
E se il ministero del Lavoro rende noto che la disoccupazione è stabile al 3,6 per cento, le associazioni umanitarie come Human Rights Watch o Amnesty International, da anni impegnate per i diritti nel Paese, assicurano che il tasso per i giovani sciiti è molto più elevato: cittadini di serie B a tutti gli effetti. Non solo: il Governo continua a naturalizzare decine di migliaia di sunniti provenienti da altri paesi, come Pakistan, Yemen, Siria, Giordania, con l’obiettivo di aumentare la presenza sunnita nel Paese. Lo scorso agosto ha addirittura varato una riforma per i lavoratori stranieri, facilitando per loro l’ingresso in Bahrain e abolendo – unico stato del Golfo – i vincoli che regolano e vincolano l’immigrazione in tutta la penisola arabica.
Le proteste di Manama di queste settimane esprimono dunque il malcontento della maggioranza sciita del Paese, ma non della classe media, che è sunnita, appoggia il re Hamad bin Isa al-Kalifah e vuole mantenere i propri privilegi. Il sovrano, al potere dal 1999, non solo è sostenuto dalla maggior parte dei sunniti, ma viene considerato il più aperto e tollerante tra i sovrani del Golfo, soprattutto dopo avere varato una nuova Costituzione, nel 2001, che prevede il voto alle donne, un parlamento con una Camera Consultiva, di nomina regia, e una Camera dei Deputati, eletta a suffragio universale, e alcune riforme a favore della libertà di espressione.
Non è la prima volta che gli sciiti manifestano in piazza: era già accaduto nel 2005 e ancora nel 2007. Ma dopo le ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, che si sono svolte lo scorso agosto, la tensione è salita: sono stati arrestati, con l’accusa di complotto contro lo Stato, molti esponenti dell’opposizione sciita (ufficialmente 25, ma Human Rights Watch parla di centinaia di persone). E questa volta, in Bahrain, non c’e solamente aria di crisi sociale: sulla scia dei cambiamenti che stanno sconvolgendo gli equilibri del mondo arabo, la rivolta potrebbe avere conseguenze ben più ampie. E’questo che spaventa tanto l’Occidente: il rischio è che la protesta diventi tutta politica e porti a una guerra civile. Da una parte gli sciiti appoggiati da Tehran, dall’altra i sunniti sostenuti dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti che, proprio in Bahrain, hanno la base di appoggio della V Flotta della Marina, fondamentale per controllare lo stretto di Hormuz, il transito del petrolio e l’Iran.
Re Hamad, già prima delle proteste, ha provato a calmare le acque, distribuendo a tutte le famiglie 2 mila dollari e avviando una riforma dei mezzi di informazione. Ma non è bastato. Ha quindi usato la forza reprimendo le manifestazioni, come in passato. Secondo l’agenzia di stampa statale Bahrain News Agency, sarebbero intervenuti in appoggio alle forze di polizia del Paese anche i militari sauditi. Il risultato sono stati otto morti, centinaia di feriti e gli occhi del mondo puntati addosso. Su pressione degli Usa e degli altri Paesi del Golfo, il sovrano ha così deciso di invertire di nuovo la rotta: meglio la cautela e promuovere ogni sforzo necessario per riportare la calma, senza spargere altro sangue. Sono quindi arrivate le dichiarazioni del principe ereditario Salman Bin Hamad Al Khalifa, che ha sottolineato come tutte le questioni possano essere discusse sedendosi attorno a un tavolo, perfino il criterio di selezione dei ministri. Seguite dal rilascio di 23 prigionieri politici, come richiesto dal leader dell’opposizione Abdul Jalil Khalil.
Ma qualcos’altro si sta muovendo: Hassan Meshaima, capo del gruppo radicale sciita, da anni in esilio in Inghilterra, ha annunciato il suo ritorno in Bahrain per unirsi alle proteste. E’ il segno che a sostegno dei manifestanti si stanno inserendo correnti più forti e connotate politicamente. E dalla rotonda delle Perle arriva la conferma: da qualche giorno sono comparsi nuovi striscioni che chiedono non solo le dimissioni del re, ma l’estromissione dell’intera famiglia reale.