Elizabeth Taylor
(27 Febbraio 1932-23 Marzo 2011)
Attrice angloamericana di 79 anni da poco compiuti. E uno dei più celebri multipli creati da Andy Warhol.
Era nata a Londra – North West, quartiere di Hampstead – con passaporto britannico e genitori di Arkansas City, Kansas (Francis Lenn Taylor, gallerista, e Sara Viola Warmbrodt, ex attrice non di successo). A pochi anni prendeva lezioni di balletto classico. La famiglia sarebbe tornata negli Stati Uniti nel 1939, a ridosso della guerra. Vivevano molto bene a Los Angeles, dove Elizabeth seguiva anche corsi di canto e imparava ad andare a cavallo. A poco più di dieci anni, entrava di ruolo, debuttante, a Hollywood in Torna a casa Lassie! (1943). Era la bambina con l’espressione da persona grande di quel collie dal volto umano. Il giorno dopo la sua morte – sempre a Los Angeles, per una crisi cardiaca – qualcuno ha ricordato, alla televisione, che, per quella parte, il cachet di Elizabeth «era stato inferiore a quello del cane».
Sempre in quel giorno, la signora Margie Phelps, avvocatessa e figlia del pastore battista della Westboro Church di Topeka, Kansas (che come motto ha God hates fags. Alla lettera: «Dio odia i froci»), non ha censurato un suo personale necrologio: «Nessuna pace abbia Elizabeth Taylor, vissuta nell’adulterio e nell’incoraggiamento all’omosessualità e alla pederastia. Oggi all’inferno la insultano».
Niente di religioso, in fondo, in questa dichiarazione di guerra alla vita, alle opere, e anche al corpo morto di Elizabeth. Anzi, forse un po’ di invidia insieme a un bel complesso di castrazione blindato, come succede ai milioni di ossessi che nel mondo militano ferocemente in nome di una monofede e di una monomorale, anche sessuale. Comunque, a Teheran e in altri posti, la signora Phelps «versus Taylor» vincerebbe la causa. Mentre altri cittadini del mondo e altre categorie di persone – un pubblico, in senso lato – prendono oggi quell’icona (termine non abusante, in questo caso), prorompente di tutto, per quello che è. E per come potrebbero sentirsi dentro quei 79 anni variamente recitati. Perché Elizabeth Taylor lascia di sé una vera iconoteca.
I cinesi, iconomani in serie, potrebbero fare un dialettico gioco di coppia con i loro competitori mondiali, gli americani. Basterebbe affiancare le due star fra i multipli di Andy Warhol, quello del presidente Mao e quello di Liz. Un’immagine (anche traslata sull’oggi geopolitico) di come una potenza cinese, in fondo senza età, debba condividere di tutto con un bellissimo e tipico marchio femminile americano: rivalità, pace, conquista altalenante l’uno dell’altra, o viceversa. Viene in mente, di colpo, lei vestita da Cleopatra (nell’omonimo film di Joseph L. Mankiewicz, 1963) quando riceve, per trattare e sedurre, un Giulio Cesare più adulto, al massimo della forza, ma di fronte a lei già smantellato (interprete, Rex Harrison).
Gli inglesi, orgogliosi, potrebbero suggerire il gioco delle scoperte: quanti sapevano che l’americana Liz era di Londra (e che aveva mantenuto un alto accento originario), così come Cary Grant – altra icona, maschile, di Hollywood – era di Bristol e si chiamava Archibald Alexander Leach? (Lui però aveva quattro quarti di inglesità).
I gioiellieri – e non solo quelli di Place Vendôme, a Parigi, coi loro simili a Londra, New York e Roma – possono sentirsi per sempre rappresentati da una testimonial del loro mestiere come lei: quella sua passione per le pietre preziose era caratteriale, o femminile, o di scena, o di corollario alla bellezza. Ognuno scelga il motivo più adatto alla proprie visioni.
Fra gli ebrei, soprattutto americani, lei è stata un’assimilata in movimento. Così come, in linea di massima sono loro, e così come l’hanno accolta, dopo la sua conversione per amore di Mike Todd, il suo terzo marito. E così come lei si è sentita, praticando la religione a livello zero, o quasi. Salvo scoprire, negli ultimi anni, il piacere dell’adesione a un gruppo di cabbalisti newyokesi.
Per milioni di uomini e donne omosessuali, che, una trentina d’anni fa, morivano pubblicamente detestati come il castigo del cielo o una peste storica (venivano scoperti l’Aids, la vita vera e la morte di Rock Hudson, e molto lentamente, i cocktail di farmaci antiretrovirali) Elizabeth Taylor è stata un’opera di bene, d’amicizia, e di fund raising. Molto forte e, all’inizio, molto isolata.
Coi suoi otto mariti (e un raddoppio di matrimonio con Richard Burton) lei potrebbe anche essere una forma di incoraggiamento a chi si sposa una volta sola, credendo nell’infinità del suo matrimonio. Non è una battuta: quando Elizabeth diceva che voleva «essere solo la moglie di Richard Burton», quando lo era, non recitava. Aveva probabilmente una sua idea istintiva (o la sua vita glielo suggeriva) della durata di un set coniugale: una ripresa, due riprese, un cambio di scena, ma, alla fine, un possibile ritorno alla più profonda, o alla più unica, delle relazioni. Anzi, degli amori. Era un’attrice, più che una collezionista. In una celebre foto con lei che tiene in braccio la figlia appena nata, Liza, e col marito e padre Mike Todd che le protegge guardandole, la coppia e la famiglia sono, in quel momento, infinite. D’altronde, chiudendo se stessa come La bisbetica domata – forse il più bel film di Franco Zeffirelli, 1967 – Caterina (Liz Taylor) punta, di fronte a tutti, sul marito Petruccio (Richard Burton): «Perché egli sia soddisfatto di me, ecco qua le mie mani, tutte e due».
Per chi va al cinema, e cerca di intuire, in un film e in chi recita, la tenuta nel tempo, o il talento, o la bravura in una parte, Elizabeth Taylor può offrire qualche punta d’oro delle sue qualità. In generale, a parte la bellezza bruna e regolare e il citatissimo color viola degli occhi (ma un’iride non interpreta, non entra in un ruolo), erano l’ansia, o la rabbia, o la chiusura, o la tenerezza che riusciva a darsi soprattutto con le espressioni della bocca, che colpivano. Il contrario di Grace Kelly, un’ espressionista (molto brava) del controllo delle espressioni.
In particolare, quando un clima, o una trama erano claustrofobici o gelati, Elizabeth Taylor riusciva, nella sua parte, ad aprirli, o a sottolinearli. In due film esemplari: Improvvisamente l’estate scorsa (sempre di Mankiewicz, 1959), e Riflessi in un occhio d’oro (di John Huston, 1967), i due personaggi che lei interpreta – anzi, come lei diventa quelle due donne – danno un tono reale a due drammi immaginari e apparentemente immobili. Il primo – dove lei si chiama Catharine Holly, una ragazza che rischia la lobotomia e che si salva vomitando una tragedia rimossa – si svolge in un’elegantissima e rarefatta casa di New Orleans. L’altro – con lei nel ruolo di Leonora Penderton, moglie di un ufficiale, un maggiore, omosessuale represso (Marlon Brando) – racconta cosa può succedere (e probabilmente succede) nella vita di una base militare. In quel caso, della Georgia.
Alla fine sono soprattutto gli americani a potersi riflettere, attraverso tutti questi caratteri, veri o sceneggiati, in Elizabeth Taylor. Anche gli americani oggi in divisa, in Iraq o in Afghanistan. Se la si immagina intrattenere o distrarre tutti quei soldati, un po’ come faceva Marlene Dietrich durante l’ultima guerra mondiale, la scena potrebbe essere anche una risposta al necrologio della signora Phelps, e alle visioni della comunità battista della Westboro Church.
Mohammed Nabbous
(27 Febbraio 1983-19 Marzo 2011)
Giornalista e blogger libico di Bengasi. Il 17 febbraio aveva messo in piedi la Lybia Alhurra Radio Tv, la prima televisione privata e libera (su internet) della storia del Paese. È morto il 19 marzo, colpito da un cecchino delle truppe di Gheddafi.
Aveva 28 anni, era un matematico e un informatico, e aveva seguito, a Oxford, dei corsi di ingegneria. Era sposato, e sua moglie aspetta un figlio. Chiamato «Mo» dai suoi compagni, parlava un buonissimo inglese. Clemens Höges, reporter dello Spiegel aveva detto di lui: «Potrebbe essere la più importante persona della rivoluzione».
Con quella televisione, e con quei reportage 24 ore su 24, Mohammed Nabbous ha fatto vedere, commentato, e testimoniato per sempre l’assedio di Bengasi: in particolare, i continui attacchi alla popolazione civile, i bombardamenti da tutte le parti. È stato ucciso mentre filmava uno di quei bombardamenti e dopo che, a Tripoli, il portavoce del governo aveva dichiarato il cessate il fuoco.
Quella televisione, nei primi giorni dell’insurrezione, era riuscita ad aggirare gli oscuramenti su internet disposti dal governo. Nel suo ultimo reportage, sabato 19 marzo, Mohammed commentava con degli incisi disperati ed esatti: «I don’t believe this is happening, they can’t believe what’s happening. All the area is bombed».
Intervistato più volte come un «eroe del quotidiano», ripeteva questi due concetti: «Quello che importa oggi non è di essere forti o deboli, ma di essere vivi o morti e di fare qualcosa adesso. Per quanto mi riguarda non ho paura di morire, ma di perdere la battaglia».
Una risposta (dovuta) ai lettori
Domenica scorsa il Se ne sono andati, sulla spinta dei fatti del mondo, aveva assunto una forma differente, occupandosi in particolare di Libia, ma sollevando diversi commenti polemici.
Martedì sera, a Ballarò – nel pieno di un’orgia di punti di vista pro, contro, o in dubbio, sull’intervento militare occidentale – il direttore di Limes Lucio Caracciolo avanzava un’ipotesi al passato prossimo: forse Gheddafi non aveva interesse a far prendere Bengasi dai suoi. Troppo pericolosa quella città ribelle, un verminaio di resistenza, dove anche la sua truppa mercenaria rischiava un massacro frammentato. Un’ipotesi, da esperto, nell’incertezza del quadro. Oppure, un processo assolutorio alle intenzioni. Che erano state invece chiare come una deposizione preventiva: «Non avrò pietà».
«Filo gallismo» – inteso come Francia – «passione pro coloniale», «romanticismo», «ingenuità», «trasporto per una propaganda interventista e pelosamente umanitaria», sono fra le immagini più semplici obiettatemi, qui e là, dai lettori. Un’altra polemica sentita in questi giorni: «Ci si muove per Bengasi, si è stati fermi a Srebrenica o per Kigali». Il fatto è ingiusto (e anche, in prospettiva, che non ci si possa muovere per Lhasa e, in fieri, per Damasco o Daraa), ma non disarmante. Sarà un colpo d’occhio elementare, ma quella città – Bengasi – e le ragioni per cui è insorta sono, per ora, salve. Quantomeno, è stato stornato quel massacro. E una volta tanto.
Il disarmo dei tiranni contempla, naturalmente, anche tutti i mezzi necessari per non arrivare alle bombe. La geopolitica (e l’economia globale) negoziano con tutti. Poi, lungo chilometri di trattativa, una parte può scoprirsi sfiancata o sorpassata, mentre l’altra, meno inibita (Churchill usava il termine antico «gangster» per definirla), scopre il mitra a ripetizione. Allora, potendolo, ci si muove. E alla fine può capitare che almeno uno di quei gangster – con cui si è discusso invano nella prima fase senza armi – finisca processato davanti a una corte internazionale di giustizia. Ad almeno uno del gruppo è successo (Slobodan Milošević).
Gli interventisti sono di tutti i colori: filo Marsigliese, filo yankees, filo Union Jack. Appartengo alla gamma meno conosciuta (e «romantica», o «naïve») che ragiona, alla larga, come Hannah Arendt: «Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività. Né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla di questo genere. Io amo “solo” i miei amici, e la sola specie d’amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone». A.J.
Il quadro di questa settimana: «Sleep Phases», del pittore bielorusso Andrej Buryak, olio su tela, 2007