Non piace tanto l’immagine dell’uomo pecora che segue. Giustamente. Però mentre l’animale non segue per sé nessuno, se non il proprio istinto, e non sbaglia, l’uomo non è programmato dall’istinto ma è libero e mosso dal desiderio di vita e di felicità.
Il suo è un desiderio che non ha contenuto: lo apprende dai modelli che ha davanti. E questi modelli sono i nostri pastori, che ci guidano e ci controllano. Tutta la cultura è fondata su modelli che seguiamo anche inconsciamente, e oggi più che mai, perché grazie ai mass media c’è un meccanismo oleato: seguiamo un modello senza neanche sapere di seguirlo. Come pecore.
Come scegliamo il modello-pastore? Prendiamo come oggetto dei nostri desideri da realizzare quello che ci sembra essere il più realizzato. Ossia il modello che riesce a dominare sugli altri. E perché il modello dominante è tale? Perché riesce a vincere. Perché vince? Perché s’impone. Perché s’impone? Perché ha i mezzi, il potere. Se uno non vuol accettare quel modello che cosa gli capita? O è emarginato, o è eliminato. Oggi più che mai.
E se uno si ribella? I casi sono due: o non ci riesce e viene eliminato o emarginato, oppure diventa dominatore. Allora, emargina il precedente e lui da bandito si fa capo e re, l’altro diviene vittima designata.
Tutti, sudditi e capi, giochiamo dunque allo stesso gioco del più violento. Gesù propone invece un nuovo modello di uomo, che è figlio di Dio e fratello. Vediamo il testo.
Giovanni 10, 1-6
Amen, amen vi dico: chi non entra per la porta nel recinto delle pecore,
ma sale da un’altra parte, costui è ladro e brigante.
Chi invece entra per la porta è pastore delle pecore.
A lui il portiere apre e le pecore ascoltano la sua voce e chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
Quando ha espulso tutte le proprie (pecore), cammina davanti a loro; e lo pecore lo seguono, perché riconoscono la sua voce.
Un estraneo invece non seguiranno, ma fuggiranno da lui, perché non riconoscono la voce degli estranei.
Questa similitudine disse loro Gesù; ma quelli non capirono
cosa fosse ciò che diceva loro.
Il racconto è un’esposizione per contrappunto del modello di uomo proposto da Gesù, il Pastore bello, e degli altri falsi pastori che sono briganti, ladri, lupi e mercenari. Il pastore è un’immagine nota nella civiltà ebraica. Abramo era pastore, Mosè è pastore del suo popolo, Davide è pastore. Il pastore ha col gregge un rapporto particolare. Vive del gregge, ma anche il gregge vive di lui: deve portarlo ai pascoli e dove c’è acqua, se no muore. La vita dell’uno dipende dall’altro.
Il capo, il pastore, è anche ciò con cui ci identifichiamo. Questo in un regime democratico è ancora più chiaro, perché il capo viene eletto. I capi di cui parla Gesù non sono persone disoneste: sono i capi del popolo di Dio che conoscono la legge e la osservano. E ci tengono che tutto il popolo osservi questa legge.
A costoro si contrappone il Pastore bello – in greco, la lingua in cui sono scritti i Vangeli, c’è la parola “bello”, più significativa della consueta traduzione “buon Pastore”. Il Pastore bello è colui che tira fuori dal recinto le pecore. Cioè fuori metafora, Gesù propone all’uomo una libertà da tutti i recinti per camminare nella libertà della fraternità dei figli di Dio.
Crollato l’ateismo, che è una forma di idolatria, il vero problema è: quale immagine di Dio abbiamo? C’è un modello di Dio talmente altro che distrugge ogni altro da sé – allora si fanno le guerre sante di qualunque religione – e c’è un Dio talmente altro che fa ogni alterità nell’amore e rispetta ogni persona. E quel che vale nel rapporto fra Dio e uomo, vale poi nel rapporto fra gli uomini.
In una cultura maschilista, per esempio, la prima alterità è la donna: che fine fa la donna in una cultura maschilista, compresa anche la nostra? Altrove la velano e la nascondono, noi la emarginiamo lo stesso, omologandole all’uomo-maschio. Si distrugge così l’alterità.
Il mondo della globalizzazione, sostiene un antropologo americano, è speculare e fa la guerra santa con l’altro mondo del fondamentalismo delle varie religioni. Ma sono uguali: due forme di religiosità con lo stesso modello. Uno lo pone in Dio – il Dio che deve distruggere tutti per dominare – l’altra lo pone nel tipo d’uomo da imporre a tutto il mondo, distruggendo il resto. Tanto per dire quante forme di schiavitù abbiamo senza accorgerci, sia religiose sia laiche.
Amen, amen vi dico: chi non entra per la porta del recinto delle pecore, ma sale da un’altra parte, costui è ladro e brigante.
Amen, amen vuol dire in verità, in verità. Le pecore sono il popolo di Dio. Il recinto è una parola che in greco non vuol dire ovile. Recinto è ciò che delimita il tempio o la tenda del convegno. Recinto, cioè, è ciò che ci tiene dentro.
Cosa fanno le pecore nel recinto? Di notte può essere utile che stiano lì, al riparo. Quando viene giorno, le pecore restano nell’ovile solo per essere munte, tosate o portate al macello. Gesù le conduce fuori da ogni steccato religioso, verso i pascoli della vita: ne fa un solo gregge di persone libere, di figli e fratelli tutti simili a lui e diversi tra loro. I capi le tengono nel recinto per sfruttarle e opprimerle. Il recinto è dunque il concetto che abbiamo di Dio e di legge, che è lo stesso concetto che abbiamo di uomo.
La porta è una breccia nel muro, nello steccato. È dove cessa la prigione, dove si può entrare. La porta dell’uomo è la sua intelligenza e la sua libertà, che sono la sua porta su Dio. Ciò che non entra passando attraverso la nostra intelligenza, quindi sottostà al vaglio critico, e non risponde al desiderio di felicità di vita e di libertà e di giustizia, non entra per la porta.
Chi ha bisogno di entrare aggirando e raggirando l’intelligenza altrui con imbrogli e propaganda, non entra per la porta. E questo vale per tutti i capi, religiosi o meno. L’importante, per costoro, è che l’uomo non capisca e obbedisca, mentre Gesù, che è Parola del Padre, vuole che l’uomo capisca, non vuole schiavi e sudditi. Egli sa esporre, deporre e disporre la sua vita a favore degli altri. È capo perché servo di tutti: è il Pastore bello, diverso dai capi-briganti che seguiamo come modello.
Gesù sta parlando ai capi e dice loro che sono ladri e briganti. Nel Vangelo di Giovanni ladro è Giuda, che s’impadronisce di ciò che è di tutti. E brigante è Barabba, uno che aveva tentato una rivolta. Se fosse andata bene, da bandito lui avrebbe preso il potere e la vittima sarebbe stato il capo che era Pilato.
Quindi briganti sono coloro che s’impossessano, i padroni che vogliono avere in mano tutto e tutti, chi vuole il potere. Il brigante maggiore, allora come oggi, è quello che riesce. I falsi pastori sono ladri e briganti a meno che facciano come il Pastore bello che dà la vita per le pecore, che si mette a servirle.
Chi invece entra per la porta è pastore delle pecore.
Ai ladri e briganti, che vogliono dominare e sfruttare, Gesù contrappone il Pastore bello, che è lui. La prima caratteristica del Pastore è che entra per la porta. Usa la Parola, non per imbrogliare ma per comunicare, per compromettersi, per dire la verità anche se la paga cara. Il Pastore rappresenta Dio che ha promesso che diventerà lui il Pastore del suo popolo, perché il popolo ha cattivi pastori che lo sfruttano. L’attesa del Messia si realizza in questo Pastore che si mette a servizio e non si serve degli altri per dominare, altrimenti sarebbe un falso cristo, un falso pastore.
A lui il portiere apre e le pecore ascoltano la sua voce e chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori.
Il portiere siamo noi: noi apriamo spontaneamente il nostro cuore a ciò che è bello e buono, e riconosciamo subito nel nostro cuore se una cosa dà morte o vita, libertà oppure oppressione. Siamo noi i portieri, ma a quale pastore apriamo?
Il popolo oppresso, anche se in qualche modo ha introiettato l’oppressore, desidera uscire dall’oppressione perché ne paga i costi e quindi ascolta se sente una via d’uscita. Impressiona una cosa: nella nostra epoca abbiamo ascoltato tutt’altro che il Buon Pastore.
Il secolo passato è stato un esempio esimio nella storia di falsi pastori, con nome e cognome, li abbiamo seguiti a miliardi e hanno devastato il mondo. Oggi, forse, non c’è più un singolo falso pastore, ma abbiamo una mentalità diffusa che fa da pastore globale a tutti e tutti la seguiamo tranquillamente, e non ascoltiamo l’unica voce interiore che ci dice: non è giusto così.
Che fa il pastore con le pecore? Le chiama per nome. Il nome vuol dire relazione. Gli antichi pastori chiamavano per nome ogni pecora – come i contadini da noi fanno con le mucche – e noi lo facciamo con i cani. Per i ladri e briganti, invece, le pecore non hanno nome, sono solo da sfruttare. Se quando facciamo del male, facciamo delle guerre, provassimo a pensare che gli altri hanno un nome e sono persone come noi, non lo faremmo; se poi capita a noi o ai nostri fratelli, comprendiamo che è sbagliato.
Quando ha espulso tutte le proprie (pecore), cammina davanti a loro; e lo pecore lo seguono, perché riconoscono la sua voce.
Un estraneo invece non seguiranno, ma fuggiranno da lui, perché non riconoscono la voce degli estranei.
La parola “espellere” è molto forte, viene usata per il cieco (guarito) espulso fuori dal recinto del tempio perché non sottostava ai dominio dei capi. Israele fu “espulso” fuori dall’Egitto: è un atto di nascita, è un essere buttato fuori dalle tenebre e venire alla luce.
Gesù con ironia divina dice: voi lo avete espulso? No, sono stato io ad espellerlo da voi, dal recinto della schiavitù. Quello che è capitato all’ex cieco, di essere espulso, che è la massima punizione, si rivela in realtà il suo venire alla luce del Pastore bello, che cammina davanti a tutte queste pecore espulse come JHWH nell’Esodo.
«E le pecore lo seguono perché riconoscono la sua voce». Questo tema è fondamentale: c’è nel nostro cuore una capacità di sentire e riconoscere la voce interiore della verità e distinguerla dalle altre. Al di là di tutti gli imbrogli che subiamo.
Questa similitudine disse loro Gesù; ma quelli non capirono
cosa fosse ciò che diceva loro.
Se uno sta parlando di me e io non capisco, è perché sta dicendo esattamente le cose che io faccio, credendo che siano le migliori del mondo. Quindi non è per cattiveria che non capiamo, ma per cecità. Cioè: il potere acceca, è bello fino a quando non crolla. Così accade per il falso modello-pastore: lo smascheriamo quando vediamo che non riesce a realizzare il male che si propone; se invece ci riesce, tutti lo seguiamo.
Il momento presente è certamente un kairos, un momento opportuno per capire, se non rimuoviamo dalla nostra consapevolezza ciò che capita in Italia e nel mondo. È un momento opportuno perché scopriamo che o ci facciamo fuori a vicenda, o davvero bisogna impostare un nuovo tipo di rapporti che non siano più fondati sull’uomo che è lupo per l’altro uomo, ma sull’uomo che è uomo per l’uomo, figlio di Dio e fratello.
*biblista e scrittore
Il testo riportato è una sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Nella foto: Lorenzo Pietrogrande, «Io sono la porta delle pecore», tecnica mista su cartone, 2011 – Galleria Blanchaert
(articolo ripubblicato il 19 novembre 2011)