Richard Cornuelle
(10 Aprile 1927 – 26 Aprile 2011)
Di Elwood, Indiana, analista sociale ed economista americano. Fra i suoi incarichi, quello di vicepresidente e poi direttore del Princeton Panel, un centro di studi sul capitalismo negli Stati Uniti. E poi, notevole, l’impegno come fund raiser in importanti associazioni no-profit (come l’Usa Funds) per garantire sussidi agli studenti. Aveva 84 anni, è morto di cancro a Manhattan, a casa sua.
«Il soggetto dell’economia non sono i beni e i servizi, ma gli uomini vivi».
(Ludwig Edler von Mises)
È stato subito ricordato con espressioni sicure di se stesse: «A libertarian writer» – il New York Times – ; «America has lost one of his great champions of liberty» (Atlas Economic Research Foundation).
Nel suo primo libro, Reclaiming the American Dream, del 1965, Richard Cornuelle faceva un giro d’orizzonte sulla società nel suo complesso (organizzato, capitalista, ma con uno Stato tutt’altro che assente), per indicare dove stesse la più promettente, libera, e anche libertaria zona di società «civile». Una zona motrice di cittadini, di gruppi diversi e ben funzionanti, anche con solide tradizioni di autoreferenza, che avevano poco da chiedere (in termini di protezione o di indirizzo generale) al governo e allo Stato. Cornuelle inventava, nel libro, un’espressione orgogliosa: «indipendent sector». Oggi, invece di sector si direbbe network. Cornuelle ne nominava un bell’insieme: nuclei familiari, fondazioni, chiese, associazioni di volontariato, o di lavoratori, aziende private, organizzazioni d’assistenza «fraternal». Un quadro d’iniziativa individuale e liberale, non tanto dal basso, quanto a rete diffusa e comunicante. Antica, in fondo, e spontanea, giorno per giorno: migliaia, o milioni, di individui attivi, associati dai rispettivi valori, anche ideali, e interessi. Lo Stato, ancorché federale, con la sua burocrazia e col suo monopolio classico (valori e interessi), era l’altra parte. Dirimpettaia, nel migliore dei casi.
Con quel libro, scritto a ridosso dei quarant’anni, Cornuelle stanava in se stesso, e per un pubblico di ammiratori sofisticati e sinceri, un ruolo di base, quello di «servant of the civil society». Nel resto della sua vita, e dei suoi libri, lo avrebbe precisato. Quando, nel 1976, usciva il suo De-managing America, il titolo era già una denuncia a programma: nel testo, l’analisi e la critica travolgono le strutture gerarchiche del business, della scuola, e delle università. E, in testa, dello Stato-nazione. E l’espressione usata in questi giorni per dare un’idea aggiornante dello spirito di quel libro – «libertarian communalism» – dice anche quanto Cornuelle producesse per sé una denominazione d’origine abbastanza unica. Chi lo criticava, da destra o da sinistra, o semplicemente non ce la faceva a metterlo in cornice, ricorreva alle sottrazioni («né un conservatore, né un liberale ai loro stati puri»), o ai classici del pensiero («un liberale del XIX secolo»). Da liberale, anche profetico, intravedeva la crisi economica di oggi, nel 1983, l’anno del suo libro Healing America. Dove la critica, di lungo periodo, centra la crescita fuori misura del welfare puntellata dai mutui e dall’inflazione monetaria.
Questo sintetico schizzo di Richard Cornuelle è legata al valore della sua vita e ai termini «liberale», «libertario», «società», e «civile». Due parole sulle loro declinazioni pratiche, attuali. L’espressione «società civile» è quantomeno sfuggente. Sotto una certa visuale può coincidere con milioni di cittadini che si organizzano e reagiscono in nome di valori civili: diritti, Costituzione, rispetto delle leggi, lavoro. Se la si guarda al momento del voto, può, invece, combaciare con milioni di cittadini-elettori che mandano, in maggioranza (anche relativa) e ripetutamente, al governo, il peggio. L’aggettivo «liberale» è, da quasi vent’anni, in Italia, il più ripetuto. E, in genere, il meno consono, alla vita, alle opere, e ai valori, di chi in continuazione lo cita. Il termine «libertario» è l’unico a essere rimasto sostanzialmente integro nel suo significato, non solo politico. Ma lo si sente sempre meno. E, a parte i radicali, pochi si azzardano a nominarlo pubblicamente come un carattere civile.
Josef (Joe) Klein
(1928 – 25 Aprile 2011)
Colpito, da tempo, da un Alzheimer, è morto nel Kent. Lì viveva dal 1954, l’anno in cui aveva deciso di stabilirsi in Inghilterra. Precisamente a Cliftonville, quartiere di Margate. Dove l’albergo che ha diretto dal 1962, anche come cuoco molto apprezzato (ricette e piatti ebraici, soprattutto), si chiama New Carmel Hotel. Era nato in Polonia, a Łask, una cittadina che fa parte del voivodato di Łódź, nel Centro Sud del Paese. Łask ospita oggi una base dell’aeronautica polacca, ma nel 1940 i tedeschi occupanti vi avevano creato un ghetto.
Il signor Klein, o Mr. Klein, nei primi anni del dopoguerra, non sapeva, né esattamente né in modo vago, dove andare a vivere. Israele era una possibilità nuova, e la sua prima guerra per esistere come Stato (1948) lo aveva coinvolto: 20 anni, volontario, europeo, polacco, ebreo scampato allo Sterminio. L’unico della sua famiglia d’origine. In quel Paese appena nato avrebbe conosciuto una moglie adatta ai suoi gusti, di nome Toby: tutti e due avevano, innate, l’arte e la passione della cucina. La Svizzera era un’altra opportunità. Un Paese non particolarmente gourmet, ma dove il signor Klein si era temporaneamente spostato. Per seguire (non si sa dove, in quale città o Cantone), un corso da Cordon Bleu, e diventare, con naturalezza, un giovane chef.
Nell’aprile del 1945, gli inglesi che liberavano il campo di concentramento di Bergen-Belsen (Bassa Sassonia), avevano trovato anche Klein sedicenne: così sfinito da non farcela ad alzarsi dal suo pagliericcio.
In Israele, nei primi anni Cinquanta, Josef e Toby Klein avevano perfezionato molto bene la loro conoscenza delle cucine ebraiche. Il Paese, strutturalmente misto, era, in quella zona della vita e del piacere, un buon campo di apprendimento e di pratica. Fra i vini, quelli del Monte Carmelo (o Carmel), stavano diventando un rispettato marchio d’esportazione.
Fra il 1940 e il 1944, la famiglia Klein (genitori, più Josef e le sue sorelle, Rosa, la più piccola, e Sara, la maggiore) avevano subito una catena di passaggi, da deportati destinati prima al lavoro forzato e poi all’eliminazione. Dentro un interminabile perimetro territoriale polacco-tedesco. Dal ghetto di Łask al campo di Chełmno (60 chilometri a nord ovest di Łódź, il primo a essere operativo nello sterminio), al ghetto di Łódź, al sotto-campo di Buna (ad Auschwitz), al campo di Dora-Mittelbau (annesso al campo di Buchenwald, fra i monti dell’Harz). A Dora, una parte del lavoro forzato aveva uno scopo preciso, la costruzione e il trasporto delle V2, le bombe messe a punto da Wernher von Braun. Trasporto al gelo, il più delle volte mortifero. Dopo due settimane di marce, Josef Klein, quasi agli ultimi, veniva trasferito a Bergen-Belsen. Sara, già malata di appendicite prima di lasciare il ghetto di Łódź, era morta a Buna. Dove veniva sterminato il resto della famiglia.
Quando Josef e Toby Klein decidevano di lasciare Israele per la Gran Bretagna, forse per esportare le loro conoscenze e specilalità, si erano informati di un certo posto tranquillo e piacevole nel Kent: un albergo ben avviato a Cliftonville, di nome Carmel Hotel. Lo rilevarono, accentuando nel nuovo nome – New Carmel Hotel – un invito specifico (clima e cucina ebraici, aperti al mondo), e un’occhiata in avanti. Toby è morta dodici anni fa, e i tre figli, Ian, Leslie e Harold, hanno ricordato come, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, quel posto sia stato, e resti, all’altezza delle aspettative iniziali. Si potrebbe dire, una «land of promises», anche nei menù e nell’accoglienza.
Claude Choules
(3 Marzo 1901 – 5 Maggio 2011)
Ex ufficiale di marina australiano, aveva 110 anni. La Marina di Canberra si chiama, in sigla, Ran (Royal Australian Navy). È morto nella casa di riposo di Gracewood, Salter Point, Perth (capitale dello Stato del Western Australia). È stato comprensibilmente chiamato «l’ultimo veterano della Prima guerra mondiale», ma, anche fuori da quella Storia, ha avuto caratteri tutti suoi.
Quello, per esempio, di amare più le coste che il mare aperto. Soprattutto negli ultimi sessant’anni, gli piaceva molto andare a pescare, ma con la terra a portata di gamba. Era stato anche cacciatore, di conigli e canguri. Poi, dopo aver visto il film Bambi, aveva smesso di sparare a quegli animali di taglie così opposte.
Era nato in Inghilterra, località Wyre Piddle, nel Worcestershire, e ha mantenuto, per tutta la vita, la doppia nazionalità. Era emigrato in Australia nel 1926. Il nome e il cognome sembrano, o suonano, francofoni. In Francia, sul sanguinoso fronte occidentale della Grande Guerra, i suoi due fratelli hanno avuto due destini dissonanti: Leslie, decorato con una medaglia al valore, Douglas morto, gassato, fuori dalle trincee. Sia Douglas che Leslie, avevano combattuto, nel 1915, nel disastro di Gallipoli: quando il tentativo anglo-francese di entrare nel Mar Nero attraverso i Dardanelli era stato respinto dai turchi di Mustafa Kemal (poi Atatürk). Fra i 250 mila morti complessivi, 7.300 erano australiani, e 2.300 neozelandesi.
Suo padre, Henry, era merciaio, e sua madre, Madelin, attrice. Madelin aveva presto abbandonato tutta quella famiglia maschile, e Claude ha creduto, per molto tempo, che fosse morta.
A 14 anni era stato espulso dalla scuola, e poi aveva mentito sulla sua età per poter essere arruolato nella Royal Navy (un classico, abbastanza frequente, nelle biografie dei veterani della Grande Guerra). Non amava le automobili, e, fino ai cinquant’anni (1951; quando sull’Australia regnava ancora Giorgio VI), non ne aveva mai posseduta una. Gli piaceva girare in bicicletta. Conosceva bene il Mediterraneo, con tutte le sue postazioni britanniche (Cipro, Malta, Gibilterra), perché, finalmente arruolato (nella Grande Guerra), l’aveva girato, con la Royal Navy dal 1920 al 1923. Già da ufficiale, era stato anche sulla corazzata «Valiant», diventata celebre, nella Seconda guerra mondiale, perché gli italiani, con una spedizione di «maiali», la affondarono (a metà, visti i bassi fondali) nel porto di Alessandria (Dicembre 1941) [VIDEO dal film, del 1961, L’affondamento della Valiant].
Sempre durante la Seconda guerra, in un viavai fra l’Inghilterra e l’Australia, era diventato uno specialista nel settore mine ed esplosivi vari. Nel 1942, in particolare, quando l’armata imperiale giapponese dilagava nel Pacifico, l’Australia si preparava a un’eventuale invasione.
Il 21 Novembre 1918, dieci giorni dopo l’armistizio accordato alla Germania, Claude Choules aveva assistito alla resa della flotta imperiale sulle coste orientali della Scozia, nel Firth of Forth. E sette mesi dopo, il 21 giugno 1919, era egualmente presente all’autoaffondamento delle navi tedesche prigioniere degli inglesi nella rada di Scapa Flow; arcipelago scozzese delle Isole Orcadi.
Ha lasciato tre figli, 13 nipoti, 26 bisnipoti, e tre trisnipoti. E un’autobiografia, del 2009 (aveva 108 anni) con un titolo che suona, in fondo, sconfinato: The Last of the Last. Nelle sue foto più recenti [FOTO], ha qualcosa di Karl Popper. Come un vecchio vissuto sempre lungo una costa, o in una società, aperte, con tanti nemici.
Il quadro di questa settimana: «Dolgi nos» («Naso lungo»), della pittrice triestina della minoranza slovena Anastasia Korsič, acrilico, 2005.