Trần Lệ Xuân
(15 Aprile 1924 – 24 Aprile 2011)
O Madame Nhu, per matrimonio. Signora vietnamita, bella, e di Hanoi (nata lì, quando l’Indocina era francese). E parte dominante di una coppia non bella, ai primi tempi di uno Stato scomparso, il Vietnam del Sud. Che aveva come bandiera integralmente buddista, un giallo a tutto campo attraversato tra tre righe orizzontali rosse. Quei colori, e quella fede, erano stati una decisiva forma d’opposizione a Madame Nhu e a suo marito Ngô Đình Nhu, ministro di polizia e capo, non dichiarato, dei servizi segreti di quello Stato. La signora, in esilio dal 1963, ha passato piuttosto bene l’ultimo mezzo secolo fra la Francia e l’Italia. Ed è morta, a quasi 87 anni, in un ospedale di Roma.
Con gli Stati che non esistono più, la Storia riapre di colpo la visuale come succede con le scene d’inizio, o anche finali, di certi film colossali di Hollywood: quando il quadro viene fermato e diventa un affresco gelato. I protagonisti e tutto quello che sta intorno si immobilizzano. Per farsi osservare come dei profili fuori corso. Madame Nhu ha avuto la vitalità, e la fortuna, di uscire, neanche quarantenne, dal suo affresco drammatico prima del tempo, nel 1963 (il Vietnam meridionale si sarebbe estinto dodici anni dopo). La si ricorda oggi, appena morta, pensando che lo fosse già da chissà quanti anni, dopo aver raffreddato a temperature molto basse il ricordo del suo primo piano e della sua storia intrigante. In tutti i sensi.
Bisogna rivederla come un’accorta star di un ventennio vietnamita (1943-1963) e nei suoi caratteri concatenati. Il rango che prometteva il potere, un potere che diventava un ruolo, il ruolo particolare (eminenza non grigia, cioè femminile) che avrebbe coinciso con gran parte della gestione dello Stato. O meglio, di una dittatura. Il contrario della Petite Tonkinoise cantata da Joséphine Baker (ASCOLTA), e canticchiata da milioni di francesi. Cosi rimessa in scena, Madame Nhu ridiventa Storia, insieme a chi le sta intorno, a taglie piccole o esemplari.
Lei, di famiglia socialmente altissima. Sua madre era cugina dell’imperatore vietnamita Bao Dai (un protetto dalla Francia, ma suo «fantoccio» fino a un certo punto), a casa parlavano solo francese, si studiava danza e pianoforte. Si era anticomunisti e accorti nazionalisti, e ci si convertiva alla religione non di massa: Trần Lệ Xuân (lei, da ragazza) era diventata cattolica nel 1943.
Il marito e il cognato, Ngô Đình Nhu e Ngô Đình Diệm. Radici privilegiatissime: stirpe di mandarini, imparentati anche loro con la famiglia imperiale, ma cattolici dalla nascita. Anticomunisti e nazionalisti. Il marito, laureato in paleografia, in Francia, e, per breve tempo, giornalista, oltre che bibliotecario ad Hanoi. Molto sospetto ai francesi. Ngô Đình Diệm, celibe, sarebbe diventato, per otto anni (1955-1963), il dittatore sudvietnamita, a Saigon.
Il nemico di tutti, nato Nguyễn Sinh Cung, poi Nguyễn Ái Quốc, infine Ho Chi Minh. Il capo rivoluzionario (già cuoco, in Francia, da emigrato, per sbarcare la vita) che il 2 settembre 1945 proclamava, ad Hanoi, la Repubblica democratica del Vietnam. Una petizione di principio prima di tutto nazionale. Contro la Francia, e in nome dell’autodeterminazione dei popoli. Avrebbe battuto i francesi (con la tecnica di guerriglia dei vietminh) e poi gli americani e i nazionalisti del Sud (con la stessa tattica, aggiornata, dei vietcong). Sarebbe morto nel 1969, sei anni prima della ritirata definitiva degli Stati Uniti, nel 1975.
Un militare inglese, con degli ordini precisi. Il generale Sir Douglas David Gracey: con un battaglione di truppe anglo-indiane, riconsegnava, nel 1946, Hanoi all’autorità coloniale francese. Il Pandit Nehru si sarebbe scagliato contro questo intervento definendolo «lo sporco lavoro degli inglesi contro i nostri amici che conducono la nostra stessa battaglia».
I francesi. Un dignitosissimo perdente, e un uomo di Stato di larghe vedute. Il generale Christian de La Croix de Castries, sconfitto il 7 maggio 1954 (dopo 57 giorni di battaglia) (VIDEO) sulle alture di Dien Bien Phu (nell’alto Tonchino) dal generale vietminh Võ Nguyên Giáp (è ancora vivo, ad agosto compirà cento anni). A cui domandava, al momento della resa, «in quale accademia militare» avesse studiato. Risposta: «Alla Facoltà di Legge dell’Università francese di Hanoi». E il Presidente del Consiglio francese, il radicale Pierre Mendès France, che liquidava la guerra d’Indocina e il dominio coloniale di Parigi, firmando, come parte in causa, gli accordi della Conferenza internazionale di Ginevra (aprile-luglio 1954). Da cui nascevano due Vietnam: al Nord (Tonchino e parte dell’Annam) il Paese comunista di Ho Chi Minh, al centro e nel meridione (Annam e Cocincina) uno Stato indipendente da definire con elezioni, per quanto possibile, libere (MAPPA).
Gli americani. Ultimi arrivati, successori non «colonialisti» della Francia, i più decisi e i più forti nell’esibire discretamente (in una prima fase) la protezione all’anticomunista Stato vietnamita del Sud. Ai loro vertici, nei primi anni Sessanta (Casa Bianca con John Kennedy presidente democratico, e sede diplomatica a Saigon, con Henry Cabot Lodge, altissimo ambasciatore) decideranno di disfarsi in un colpo solo, uno dei più riusciti della Cia, del clan Diệm-Nhu. E Madame Nhu, scampata, non esibirà, quello stesso anno 1963, un gran che di cordoglio quando il presidente verrà ucciso a Dallas.
Che cosa era successo in quegli otto anni precedenti? Che il «libero Stato del Vietnam», nel complicatissimo settore asiatico della guerra fredda, non era stato all’altezza di niente. Di una democrazia, anche solo elitaria o formale, e di un confronto efficace con i comunisti del Nord. Si sarebbe visto, senza ripensamenti, un gruppo di potere cattolico, corrotto, feroce, e sostanzialmente classista, far man bassa di un Paese buddista e già sfinito dalla guerra. Si vedeva un presidente azzimato fare da figurante (Diệm), e una donna, bella come un’entraineuse d’alto bordo (VIDEO), fare da presidentessa, da testimonial turistico, e soprattutto da man forte di ogni lavoro sporco del regime. Dall’inizio.
Le prime elezioni (monarchia con Bảo Đại imperatore o repubblica) erano state imbrogliate: 98 per cento ai repubblicani, cioè a Diệm e ai suoi. La dittatura diventava vizio di forma e di sostanza. Negli anni successivi, la repressione, non solo anticomunista, avrebbe fatto circa 50 mila vittime. La polizia segreta di Nhu (il marito) eliminava anche i sospetti, incamerando dalla storia francese il peggior metodo del peggior periodo rivoluzionario (il Terrore). Nel palazzo presidenziale viveva, oltre alla famiglia, l’arcivescovo cattolico di Saigon Ngô Đình Thục. Si sarebbe vista per le strade una novità drammatica, ma inedita come forma di lotta: i monaci buddisti (allora li chiamavamo bonzi) che, a Saigon, si davano fuoco dopo essersi impregnati di benzina. Il primo a morire così, l’11 giugno del 1963, si chiamava Thích Quảng Đức (IMMAGINI da premio Pulitzer del fotografo Malcolm W. Browne). Sembra che Madame Nhu e suo marito li avessero definiti «grigliata», o barbecue.
Gli americani, informati su un’imminente golpe militare, lasciarono fare dando una mano. Diệm e Nhu venivano arrestati e poi uccisi dai soldati del generale Dương Văn Minh, nel palazzo di Gia Long il 2 novembre 1963 (John Kennedy sarebbe stato ammazzato in Texas venti giorni dopo). Nei fatti, e mentre Madame Nhu usciva, salva, dal suo ventennio e dalla sua storia, era cominciata la guerra del Vietnam.
(Il cinema e la letteratura hanno descritto un americano in missioni difficili come «ugly» o «quiet». Nel 1963, Hollywood cercava di parafrasare il pasticcio vietnamita facendo uscire il film di George Englund The ugly american (in Italia, Missione in Oriente) (TRAILER). Dove il versatile Marlon Brando viene spedito in un Paese asiatico che si chiama Sarkhan. Fa la parte dell’ambasciatore Harrison Carter Mc White, tanto liberal e pieno di buone intenzioni, quanto incapace di capire la trama di quel pasticcio. E di agire. L’opposto di Henry Cabot Lodge, il vero e attivo ambasciatore dei tempi di Madame Nhu. Otto anni prima, Graham Greene pubblicava il suo The quiet American (in Italia, Un americano tranquillo), dove l’americano di turno si chiama Pyle, fa la spia, crede di poter organizzare tutto, e ci lascia la pelle. La scena è l’Indocina francese in guerra: «Una terra di baroni ribelli, come l’Europa nel Medioevo. Ma cosa ci facevano gli americani? Colombo non aveva ancora scoperto il loro Paese». Succedeva nel 1955, primo anno di potere di Madame Nhu.
Tul Bahadur Pun
(23 Marzo 1923, o 1919 – 20 Aprile 2011)
Nepalese, veterano della Seconda guerra mondiale (scacchiere indo-birmano), ex soldato di un reggimento di gurkha, il corpo scelto molto usato dagli inglesi in ogni loro guerra di conquista o riconquista (l’ultima, quella delle Falkland, dove i gurkha erano stati la forza d’assalto contro gli argentini). È morto nel suo villaggio di Myagdi, in Nepal, per insufficienza respiratoria.
Fra le sue molte decorazioni britanniche, la Victoria Cross, la più importante. Che gli dava diritto d’appartenenza al club, o associazione, di tutti gli insigniti con la stessa onoreficenza.
Fra le incertezze della sua vita, una di base, su cui però sorvolava: era nato nel ’23 o nel ’19 ? E quindi, quanti anni aveva?
Fra le ragioni per cui aveva avuto la Victoria Cross, una, fondamentale. E di guerra. Il 23 giugno 1944, aveva difeso, in Birmania, da solo, una postazione chiamata «casa rossa». All’inizio erano in due, contro una raffica di soldati giapponesi. Poi il suo compagno era stato colpito. Dopo una notte di resistenza, all’alba era uscito da quella postazione prendendo l’iniziativa. In breve era riuscito, da solo, ad aver ragione dei giapponesi (ridotti di numero, perché sicuri che dall’altra parte non ci fosse rimasto più nessuno), impadronendosi anche di un bel po’ di munizioni.
Fra i casi più sgradevoli della sua vita, sostanzialmente uno solo. Come «migrante» in Gran Bretagna. Quando, nel 1997, si era visto rifiutare il visto di residenza nel Regno, perché «non aveva i requisiti». Uno dei casi di un dibattito pubblico, in cui il governo britannico discuteva il trattamento (cittadinanza, visti d’ingresso, pensione) da riservare ai gurkha che avevano combattuto per l’Impero britannico.
Fra le sorprese più piacevoli, la decisione di Liam Byrne, ministro laburista dell’Immigrazione che, nel 2007, rivoltava quel rifiuto, considerando che Tul Bahadur Pun era «un caso eccezionale».
Fra i ricordi passati di cui andava più orgoglioso, uno, che coincideva con un invito molto particolare. Tul aveva assistito all’incoronazione di Elisabetta II, a Westminster, nel 1953. Come decorato con la Victoria Cross.
Fra le sue frasi più magnanime, o educate (quasi all’inglese), una, soprattutto: «Non ho mai ricevuto tanto rispetto come questi giorni in Gran Bretagna». Detta quando gli avevano, finalmente, accordato il permesso di spostarsi da Kathmandu a Londra.
Fra i fatti, più naturali ma anche più sorprendenti, l’ultimo. È morto nel suo villaggio, in Nepal.
Il quadro di questa settimana: «Istoria unei vieţi» («Storia di una vita»), del pittore moldavo Mihai Grecu (1916-1997), olio e tempera su tela (parte centrale di un trittico), 1967.