Peter Michael Falk
(16 Settembre 1927 – 23 Giugno 2011)
Attore americano, di New York. Figlio di Michael Peter Falk, negoziante di tessuti e di merceria, e di Madeline Hockhauser, contabile. Tutti e due ebrei con radici est-europee: polacche, russe, magiare, ceche. Un tipo, e un carattere (anche nell’accezione inglese di «personaggio») di famiglia: rassicurante, argomentativo. E, per questo, amato dal mondo. Popolare anche per il suo fisico, da operaio mediterraneo (italiano, o greco). E per l’occhio destro di vetro, impiantato, a tre anni, dopo un’operazione per un blastoma alla retina. È morto a casa sua, a Beverly Hills – contea di Los Angeles, California – per un Alzheimer che l’aveva aggredito dal 2008.
Nel 1974, già conosciuto e caratterizzato con successo da quella sua fisiognomica italiana “buona” (perfino quando entrava nella parte di un mafioso, come in Angeli con la pistola [estratto 1 estratto 2]), Peter Falk centrava, grazie a John Cassavetes, un ruolo universale: quello del marito infinito di una moglie problematica, sofferente. Il film Una moglie (titolo inglese A Woman under the Influence [estratto trailer], con Cassavetes regista e sceneggiatore) è una bellissima istantanea su come una coppia con famiglia – tre figli piccoli – possa tenersi insieme, con una complicità finale e rinnovata, nonostante i casi della vita.
Si chiamano Nick e Mabel Longhetti, lui fa l’operaio, lei è una casalinga affettuosa ma instabile, e che beve al limite dell’alcolismo. Nick è Peter Falk (ancora una volta italo-americano), Mabel è Gena Rowlands (nella vita moglie di Cassavetes), al massimo delle sue capacità espressive. La loro vita e la loro crisi si abbracciano, si staccano, e si riabbracciano in ogni passaggio: si arriva a un ricovero psichiatrico di lei, poi al suo ritorno a casa, poi ancora a un tentato suicidio in bagno con le lamette ai polsi, e alla scena di un ceffone di lui a lei. Intorno, e dentro al dramma (che però finisce bene) la famiglia “italiana” e gli amici, che sono un po’ il coro della tragedia. Al centro, la relazione non distruggibile fra i due, e la capacità del marito di proteggere, cioè di capire, e di conoscere (o riconoscere) a tappe sofferte. Alla fine, Mabel riesce a tornare in se stessa e ai suoi: mette a dormire i figli e si “ricompone” vicino a Nick. Sono tutti bravissimi: Cassavetes mette in scena una sua specie di Doppio sogno, dove, diversamente dal racconto di Arthur Schnitzler, è il marito ad avere in mano la consapevolezza e a scoprire come usarla col massimo della sensibilità e della dedizione.
Nei film, soprattutto americani, il ruolo di chi protegge (superficialmente del “salvatore”) è affidato a caratteri diversi: quando c’è in ballo la giustizia, il carattere più celebre è quello dell’avvocato della difesa, quando si tratta di affari di famiglia, anche pericolosi, può essere quello dell’amante buono che arriva all’estremo e salva la situazione. Quando si incrociano, spessissimo, i casi di famiglia e la giustizia, e il plot diventa un affare di polizia, interviene il carattere dell’ispettore, o del detective, buono, intelligente, e tenace. A partire dal 1968, Peter Falk, si è ritrovato molto bene anche in quella parte, e oggi, in memoriam, si arriva dire che potrebbe fare concorrenza al “Columbus Day”.
Magomet Izmajlovic Isaev
(5 Marzo 1928 – 20 Giugno 2011)
Linguista russo, o ex sovietico. Originario dell’Ossezia.
La precisazione «ex sovietico», oltre a essere storicamente incontrovertibile, lo concerneva in toto. L’Urss, con tutti i suoi limiti (per usare un eufemismo), è stato un progetto universale, e Magomet Isaev, dentro l’Urss e con molti onori, è stato il massimo studioso e divulgatore dell’esperanto. Cioè di quel progetto di lingua mondiale dovuto, nel 1874, all’ingegno pluriglotta del dottor Ludwig Zamenhof: un oculista polacco che inventava un idioma – non sostitutivo delle altre lingue, ma ausiliario – che avrebbe dovuto servire, in modo “franco”, immediato, a una maggior comprensione fra i popoli del mondo. Esperanto vuol dire «uno che spera». La sua struttura è relativamente semplice: più o meno 40 suffissi e preposizioni, e uno stringato vocabolario dove è possibile produrre fra le 20 e 60 parole derivate da un’unica radice.
Magomet, celebre anche per la sua specializzazione nella lingua iranica e dell’Ossezia (da dove proveniva) [clicca qui per una completa grammatica della lingua osseta], aveva un approccio scientifico – marxista-leninista – alla diffusione dell’esperanto. Aveva creato una vera scuola di pensiero. Secondo cui, fra l’altro, «col rifiorire delle letterature nazionali, conseguente alle lotte di liberazione dal dominio coloniale, le relazioni fra più popoli diversi si svilupperanno inevitabilmente. E, altrettanto indubitabilmente, il ruolo, o la necessità di una interlingua sarà nei fatti, e nello sviluppo delle cose». Citava spesso, nelle sue conferenze, alcuni Paesi dove l’esperanto, nel secondo dopoguerra, era «largamente usato»: Bulgaria, Vietnam, Giappone, Polonia, Gran Bretagna, Romania, Cecoslovacchia, Francia. È accertato che in Unione Sovietica circoli, case della cultura, e associazioni esperantiste, avevano libero corso. Con tanto di corsi per imparare la lingua. E scuole di traduzione dei grandi della letteratura russa e russo-sovietica: da Tolstoj, a Gor’kij, a Majakovskij, a Esenin.
(Per dare un esempio dell’esperanto, a chi è italiano, si può citare qui il più celebre “attacco” della nostra letteratura, l’inizio della Divina Commedia. «Nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai per una selva oscura, /ché la diritta via era smarrita. /Ah quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia e aspra e forte/ che nel pensier rinnova la paura!». Tradotto in esperanto, da Giovanni Peterlongo: «En mezo de l’ vojag de nia vivo/ en albareg’ malluma mi trovigis/ car mi de l’ rekta vojo forvojigis./ Ha kiom pezas diri kia estis/ tiu arbar’ sovaga, kruda, densa,/ kiu ec pense renovigas timon!»).
William E. “Bill” Haast
(30 Dicembre 1910 – 15 Giugno 2011)
Americano di Paterson, New Jersey, aveva cento anni e sei mesi. E per più di mezzo secolo è stato «l’uomo dei serpenti». È morto a casa sua, in Florida, dove abitava da oltre 60 anni.
Florida: nell’immaginazione eastern e non western, quello Stato dal nome castigliano è lo stesso degli indiani Seminole, degli alligatori, delle paludi, e dei serpenti. Miami in Florida: nell’immagine immediata, quella città coincide col potere cubano-americano, e con la memoria sempre meno recente del serial televisivo Miami Vice [sigla].
Miami dal 1947 al 1984: lì, per 34 anni, i cittadini e quelli di passaggio hanno avuto a disposizione, per visite eccitanti, una “first-class farm”, una specie di zoo di primo livello con molti tipi di serpenti e anche qualche coccodrillo. Si chiamava, coerentemente, Serpentarium. Si tornava, in vitro, all’immaginazione eastern della vecchia Florida. Il creatore di quella vecchia fattoria era un baldo giovanotto di 37 anni, con un profilo da Frankestein buono, e con una sfida incorporata in una passione bruciante come un veleno: maneggiare tutti i serpenti della terra, in una costante relazione pericolosa. E potenzialmente definitiva come la morte. Lui si è chiamato Bill Haast, le sue passioni sono state più di tre milioni di serpenti velenosi tenuti fra i palmi, accarezzati, e contati con una certa precisione lungo una vita non breve.
La sua scheda avventurosa era questa: 173 morsi, di cui 20 quasi fatali. La sua autodifesa preventiva consisteva in questo: iniettarsi per oltre 60 anni, e ogni giorno, un cocktail di 32 specie di veleni tratti da altrettanti generi diversificati di serpenti. Il suo gesto quasi quotidiano (circa cento volte al giorno) al Serpentarium era descrivibile più o meno così: aprire, da dietro, la bocca del serpente, immetterla fino ai denti in un contenitore di plastica, e fargli sputare il veleno. Il pubblico, per vedere tutto ciò era pagante, ma lo scopo non si riduceva a uno spettacolo pseudocircense. Quei veleni, infatti, finivano ai Miami Serpentarium Laboratories, per venire congelati, trattati come siero, e poi medicalmente utilizzati. Per curare migliaia di persone morse da un serpente, ma anche artritiche, o colpite da sclerosi multipla. Bill Haast lavorava, naturalmente, con un’equipe di medici con le carte in norma.
La sua biografia, in sintesi, ha avuto queste tappe. A 12 anni il primo morso, in un campo di scout, e poi il ricovero in ospedale, e la guarigione con la consapevolezza definitiva di quella passione. Successivamente, la scoperta, in un catalogo, del primo tipo “esotico” di serpente diffuso in Florida. E quindi, la decisione, o il destino coscientemente scelto, di trasferirsi in quello Stato.
Dopo la grande Depressione, in piena epoca Roosevelt, l’intermezzo di un lavoro “normale”, come tecnico di volo sugli aerei della Pan American. Girando il mondo, una prima, e fondamentale, possibilità: portarsi a casa, di contrabbando e nella cassetta degli attrezzi, un po’ di serpenti e, in particolare, il primo cobra. Il resto dei fatti, cioè l’età sempre più adulta, ha coinciso con la seria avventura del Serpentarium, chiuso nel 1984 perché un povero bambino era lì finito divorato da un coccodrillo. Dei suoi tre matrimoni, solo il primo, con una certa Ann, era finito perché lei non ce la faceva più a sopportare quel trasporto ossessivo e in fondo concorrente. Le altre due, Clarita e Nancy, hanno invece avuto in comune di seguirlo, con un certo entusiasmo.
Bill – da non considerare moralisticamente come un caso da baraccone – non si è comunque mai fatto illusioni: «Un serpente non si affeziona. Potete tenerne uno per 30 anni, ma nell’attimo in cui gli lasciate aperta la gabbia, o si rompe il vetro, lui se ne va. E non torna più».
L’opera di questa settimana: «Papi da giardino» della serie «Santo subito», sculture dell’artista polacco Peter Fuss.