Ali Mirza Qajar
(16 novembre 1929 – 27 maggio 2011)
Avvocato francese e principe imperiale iraniano. Discendente, ed erede, della penultima dinastia regnante a Teheran, prima dei Pahlavi.
Mehdi Faraji, un impiccato iraniano
Uno dei tanti, ammazzati quotidianamente con la forca. Aveva 37 anni, e una foto diffusa da Iran Human Rights lo mostra mentre sta per morire appeso a una gru.
Un avvocato di ottime maniere, un iraniano in esilio nato a Beirut e poi francesizzato, che muore a Parigi a quasi 82 anni, e un povero condannato al capestro nella città di Qazvin (nordovest dell’Iran) fotografato con la corda al collo mentre un adolescente gli sta per togliere lo sgabello della forca da sotto i piedi. Due iraniani morti più o meno negli stessi giorni di fine maggio: l’avvocato, Soltan Ali Mirza Qajar, aveva diritto, come i suoi predecessori, a essere chiamato «ombra di Dio» (Zill-Ullah), mentre il ragazzino a cui fanno fare il boia è in ombra nella foto [GUARDA]. In un ipotetico documentario su quasi un secolo di storia iraniana, queste due morti potrebbero essere la chiusa del film: l’avvocato come istantanea-discendente di un passato che aveva chiuso in bellezza (uno Shah Qajar, l’ultimo di quella famiglia, coltivato, costituzionale e appassionato d’Europa), l’impiccato e anche il giovanissimo che lo ammazza, come due vittime innominate, ed ennesime, di una lunga, nerissima cronaca travestita da grande Storia. Una Storia – dal 1925 a questi giorni – a due tappe in fondo conseguenti: prima golpista (il marchio d’origine, e la tonalità dominante della dinastia Pahlavi), e poi rivoluzionaria-islamica (lo Stato-dottrina, il Terrore pubblico come legge, o codice. Nei fatti).
In questo quadro – gli ultimi 80 anni o poco più – il tempo dei Qajar, senza essere un’età dell’oro (anche civico, o di progresso) valeva almeno un racconto, come si fa con le epoche che precedono e che sembrano stabili. L’avvocato, o principe imperiale, Ali Mirza l’ha fatto, scrivendo, in francese, un libro, Le rois oubliés, dove i «dimenticati» sono i decenni della sua dinastia con i suoi Shah (dalla fine del XVIII secolo agli anni Venti), ma anche i sudditi, e poi i cittadini, la Persia e i persiani che entravano nella storia (moderna, o occidentale). Già con i loro ayatollah primedonne (come il celebre Sayyid Abdullah Behbehani) che si scontravano col potere secolare: per esempio per far revocare il monopolio del tabacco concesso dallo Shah agli inglesi. O per dare addosso a un patto d’alleanza con i russi «cristiani», a cui era stato accordato il proficuo privilegio di costruire un bel po’ di ferrovie. O con la loro prima costituzione, del 1906: concessa, combattuta, sospesa, riconfermata. O con il loro petrolio, che dal 1912 iniziava a essere estratto dalla Anglo-Persian Oil Company, la società antenata della BP. E, naturalmente, con i loro Shah: riformisti, o capricciosi, o tutte e due le cose. Il più noto, Naser al-Din (un regno lungo dal 1848 al 1896), creatore di un primo istituto moderno di studi – il Dar al-Funoon, dove si imparavano le scienze, le lingue estere, la matematica, e l’«educazione» – verrà ammazzato a colpi di pistola da una specie di pre-Osama islamista (Mirza Mohammad Reza) che sognava un Califfato unico diretto da Costantinopoli. L’ultimo Qajar, il migliore (come spesso succede agli estremi di una storia e della Storia) si chiamava Sultan Ahmad, era cugino alla lontana dell’Agha Khan, e bilanciava, pericolosamente per lui, questi caratteri: molto intelligente, educatissimo, ferrato in politica e in teoria economica, conoscitore dell’Europa dall’Atlantico agli Urali (viaggiava molto), ma molto pauroso. Era terrorizzato, nell’ordine, dai germi (portava sempre i guanti), dai suoi cortigiani, dagli inglesi, dai bolscevichi, e dal clan dei Bakhtiari.
Veniva detronizzato, lui e la sua dinastia, da un ufficiale della brigata cosacca (un corpo musulmano al servizio della corona) Reza Khan, col favore degli inglesi, e l’opposizione dei mullah. Perché Reza, prima di autoincoronarsi Shah (col nome inventato di Pahlavi) era repubblicano e soprattutto si ispirava al laicissimo Mustafa Kemal Atatürk, che a Istanbul aveva fatto fuori, insieme, il Califfato, e il potere di Stato dei religiosi. Nel 1927, da Teheran, Harold Nicolson scriveva a sua moglie Vita Sackville-West: «In Persia non c’è libertà, ma paura, corruzione, disonestà, e malessere». Un flash sostanzialmente continuo, da allora a oggi.
Hans Keilson
(12 dicembre 1909 – 31 maggio 2011)
Psicoanalista e scrittore tedesco naturalizzato olandese. Era nato a Bad Freienwalde, una cittadina brandeburghese a ridosso del confine polacco. È morto a Hilversum, nei Paesi Bassi. Alla fine dell’anno avrebbe compiuto 102 anni.
Un po’ di anni fa, l’inserto letterario del New York Times ha definito «capolavori» due suoi libri. Se ne si aggiunge un terzo. I loro titoli sono una successione di risultati pratici e psicologici: The Death of the Adversary, Life Goes On, Comedy in a Minor Key. La morte, l’avversario, la vita e il suo procedere, la commedia, e la chiave minore, sono tutti presentati al maiuscolo. Come tappe che ognuno, coi propri mezzi (o il proprio «io») e con quello che gli succede, deve assumere personalmente, senza stingersi nella generalizzazione. Così ha fatto, e narrato, il dottor Keilson, condividendo soprattutto, e per pura sorte, il proprio avversario con milioni di persone. Ebrei europei, in particolare.
In Life Goes On, scritto nel 1923, il quadro civile tedesco è formalmente ancora vivibile, ma promette il peggio alla vita a venire di Max, un mercante di tessuti ebreo (stesso mestiere, e stessa religione, del padre dell’autore). Comunque, nella realtà non letteraria, la vita va avanti anche per il giovane Hans: laureato in medicina a Berlino, impedito dalle leggi razziste a esercitare la professione, se la cava insegnando nuoto e ginnastica nelle scuole ebraiche della capitale. Quando l’avversario, cioè Hitler e i suoi, diventa intollerabile, o troppo pericoloso nell’immediato, o si levano le tende, si emigra (potendolo), o si immagina che muoia il più presto possibile. O ambedue le cose, centrando la seconda in un marchio, un titolo, pieno di un’estrema speranza.
E così The Death of the Adversary nasce in Olanda – dove il dottor Keilson si è stabilito dal 1936 – anche se il manoscritto deve restare segreto perché i nazisti hanno, intanto, occupato il Paese (nel 1940) obbligando Hans a nascondersi a Delft, la città dei cieli di Vermeer. Come Anna Frank (ma con un destino decisamente più generoso) Hans Keilson è tedesco, ebreo, sepolto, vivo, e scrive. «La morte dell’avversario» viene vista e raccontata attraverso gli occhi di un altro perseguitato razziale, ma giovane, nei mesi in cui Hitler agguanta il potere. Mentre una coppia, sempre di ebrei, ma olandesi, è la protagonista della terza tappa narrativa – Comedy in a Minor Key – una specie di decongestione nel fluire di un racconto a suspense. Dove quei marito e moglie, dopo aver accolto e custodito un vecchio ebreo che poi muore per cause naturali, ne dispongono il cadavere senza troppa cura, perché devono andare in fretta e furia a nascondersi.
Il racconto uscirà, in tedesco, ad Amsterdam, nel 1947 (e poi in Inghilterra solo nel 2010), mentre The Death of the Adversary sarà pubblicato in Germania (editore Fischer Verlag) nel 1959, e una traduzione inglese apparirà nel 1962. L’autore non scriverà poi più nulla.
Sua moglie, Gertrud Manz, era tedesca, cattolica e grafologa. Quando Hans le fece vedere, una prima volta, la calligrafia di Hitler, la diagnosi di lei arrivò sicura: «È uno che si prepara a incendiare il mondo». Erano andati via insieme dalla Germania, e in Olanda era nata la loro figlia. Lei, per sicurezza, diceva che il padre era un soldato tedesco. Mentre il padre vero, riusciva, semiclandestino a fare un sacco di cose: assistenza pediatrica a bambini e adolescenti separati dai loro genitori (cioè sparpagliati in nascondigli diversi), e una buona militanza in un gruppo della resistenza e con un falso passaporto olandese. Nome di copertura: Van der Linden.
Il quadro di questa settimana: «Chorus», della pittrice canasese di origini bosniache Maya Kulenovic, olio su tela, 2001.