Tutto il capitolo 11 del vangelo di Matteo è un capitolo di crisi, dove si pone l’umanità di Gesù che realizza l’umanità del povero, dell’afflitto, del puro di cuore, di colui che realizza il Regno di Dio proprio in queste condizioni. Gesù nella sua umanità è lo scandalo, l’inciampo.
Matteo 11, 25-27
In quel momento Gesù disse: «Ti benedico Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare».
Questo brano dalle parole molto semplici, è lo squarcio più sublime sul mistero di Dio all’interno dei Vangeli sinottici: ci mostra chi è Gesù e che cosa dona all’uomo la sua umanità. Gesù è il Figlio che dice sì all’amore del Padre e che dona a noi la stessa conoscenza che lui ha del Padre: cioè ci fa entrare nella Trinità. Quindi, questo brano è il vertice di tutta la Rivelazione e rivela la grande dignità dell’uomo: è figlio.
Gesù ha appena annunciato (“in quel momento”) i suoi lamenti su chi rifiuta il suo annuncio. Ma sa giocare il duplice gioco di Dio: il gioco del lamento e il gioco della danza. Sa lamentarsi del male e gioire del bene. È importante nella nostra vita spirituale saper distinguere il bene dal male, saper gioire del bene e contristarsi del male. A noi spesso capita il contrario: gioire del male – poi ci pentiamo – e contristarci del bene perché non lo comprendiamo. Oppure capita di fare un misto tra tutti e due.
Sono due giochi ben distinti da conoscere. Il male è brutto, è da odiare perché fa male; il bene è bene, è da godere, è da amare perché fa bene. Tra l’altro i Vangeli sinottici riportano la preghiera di Gesù solo in questo punto e nell’orto del Getsemani. Quindi sono preghiere importanti perché dicono come Gesù si rivolge al Padre.
Ti benedico o Padre, Signore del cielo e della terra.
Bene-dire vuol dire dir bene in pubblico. Vuol dire esser contento di Lui ed esprimere questa gioia su di Lui. La preghiera è fondamentalmente bene-dizione, essere contenti di Dio. Lui bene-dà, io bene-dico: il che vuol dire che riconosco il bene che mi dà come dono, come amore e vivo in tutte le cose che mi dà il suo amore. Per cui nella benedizione, io invece di fermarmi alla cosa che dà facendone un feticcio, vado a Lui, al suo Amore e trovo la sorgente della cosa.
Dove non bene-dico, in fondo mi approprio delle cose, che diventano il mio Dio. Quindi la benedizione è ciò che mi toglie dall’idolatria: benedico Dio. Solo Dio va benedetto, poi anche tutte le persone perché sono suoi figli. E questo Dio si chiama Padre.
La parola padre, in ebraico abbà è il centro di tutta la Rivelazione cristiana. Abbà è il proprio balbettare del bambino: bà, bà, bà… Attraverso questa parola il bambino entra in comunicazione, in comunione col padre. E questa parola fa sì che il padre esista come padre. Ma se il figlio non gli rivolge la parola, il padre non gli parla. E il figlio diventa figlio del padre mediante la parola. Questa parola è la parola stessa che costituisce Dio come Padre e Dio come Figlio.
Quello che dice Gesù è quanto in fondo possiamo dire noi: proprio perché Gesù l’ha insegnato nel Padre nostro. Qui c’è la ragione della benedizione. Dio fa bene le cose, bene fa, bene dà, noi possiamo bene-dire. Allora proprio vedendo accostati il verbo della benedizione e il nome, l’invocazione del Padre, la rivelazione che Dio è Padre, mi pare che sia evidenziato quello che è il massimo dell’esperienza della fede: Dio non è il tiranno, non è il Signore della creazione e di noi, nel senso di padre-padrone, ma è proprio papà. Questa è la Rivelazione. Allora a questa rivelazione che è l’esplicitazione di un dono può e deve corrispondere il ringraziamento, la benedizione, lo stupore, la riconoscenza.
Cosa è venuto a portarci Gesù? Un rapporto diverso con Dio. Attraverso la parola più fondamentale, anzi la prima parola che il bambino dice, che è rivolta a una persona e che non esprime un bisogno come il grido o il lamento, è vera comunicazione.
Comunicazione di fiducia, di tenerezza di amore. Voi provate a vedere i sentimenti che prova il padre nei confronti del suo bambino infante che per la prima volta dice il nome: papà. Il padre sente di esistere per la prima volta, in quel momento, per il figlio. Esiste per lui. Tutta la sua esistenza è lì. E che sentimenti prova il figlio a dire papà al padre. Questo è il nostro rapporto con Dio. Dio ha per me un sentimento infinito, infatti la qualità prima di Dio padre – vedi in Luca 6, 36 («Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro») – è di essere madre, di un’accoglienza assoluta infinita. La prima qualità di Dio è che mi dà la vita, mi accoglie sempre infinitamente, non può non accogliermi, perché mi è madre e padre.
Tutto ciò che sono è il mio essere figlio: è il ricevermi dal padre e dalla madre. Il peccato consiste nel non sapere questo, nella cattiva immagine del padre e della madre, che poi diventa anche il peccato concreto della vita quotidiana. Il non avere il buon rapporto col padre e con la madre, vuol dire non avere il buon rapporto con la vita, con se stessi. E Gesù è venuto a restituirci ciò che siamo: siamo figli.
L’uomo non può esistere se non quando può abbandonarsi a un amore infinito. Prima di averlo sperimentato, è in cerca di questo amore, se no, non ha motivo sufficiente per esistere. Si sente sempre in stato di abbandono, e ovunque cerca conferme di amore, di valore. Il nostro valore è infinito, è l’amore infinito che Dio ha per il Figlio. Li hai amati come ami me, dice Gesù di ciascuno di noi. Da qui quell’atteggiamento di libertà: il figlio è figlio perché è libero di amore e di abbandono, di dono e di tenerezza, e quindi di sicurezza e di fiducia.
perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.
I sapienti sono quelli che sanno e per intelligenti qui si intenderebbe più facilmente i prudenti, cioè quelli che sanno dirigere nella direzione in cui vogliono le cose che sanno i sapienti. I furbi, diciamo, i furbastri. C’è, dunque, un mistero che non è rivelato né agli intelligenti né ai furbi, né ai sapienti, né ai prudenti. Tenete presente che Gesù sta parlando a delle persone che hanno molta stima dell’intelligenza della parola, ma Gesù, lui dice il contrario: queste cose sono nascoste ai sapienti e agli intelligenti. Questo è il grande mistero. Cosa significano per noi la sapienza, l’intelligenza e la prudenza? Per noi la sapienza è quella che conosce le cose per dominarle, per controllarle, per possederle. È lo strumento del nostro egoismo, mentre la prudenza diventa lo strumento ultimo pratico, per dirigere le cose secondo il nostro interesse. Perciò, chi vive secondo l’egoismo non può capire il mistero di Dio, perché Dio è amore, e a lui necessariamente resta nascosto. Questo tipo di intelligenza non raggiunge Dio perché è un’intelligenza usata per difendersi dalla verità. Quindi l’affermazione di Gesù non è un disprezzo dell’intelligenza – Dio è somma sapienza ma la sua sapienza a noi sembra stupida perché è d’altro tipo.
Non è che Dio non si riveli alle persone attrezzate e furbe: Dio è come il sole, il sole splende sui buoni e sui cattivi, si manifesta a tutti. Però è come se ci fosse in noi la capacità di difenderci, come succede per i raggi del sole, nei confronti di Dio. In noi c’è una capacità, in un certo senso, onnipotente: noi riusciamo a bloccare Dio. Dio si comunica, Dio si manifesta e noi possiamo stopparlo, non accettarlo, lo fermiamo, riusciamo a fermarlo. Non è Lui che non vuole comunicarsi all’intelligente, al sapiente, al furbo; siamo noi che ci sottraiamo.
Nello stesso tempo c’è una rivelazione ai piccoli. La parola “piccolo” in greco vuol dire infante, quello che non parla. È interessante chi non ha tante parole – e la parola è potere, la parola è sapienza e sapere è potere – chi non ha parole ha la Parola. L’infante che parola dice? Abbà, papà, l’unica parola che sa. Attraverso questa parola lui ottiene tutto. Che sapienza è quella dell’infante? È la sapienza di chi si sa figlio, di chi sa, almeno fin che è infante, che il padre non è antagonista, almeno si spera, o lo capirà dopo, forse è questo il diventare bambini. Di chi sa che il padre è madre e lo ama, di chi sa che è la sorgente della sua vita, di chi sa che il padre è colui che dà tutto, gli dà la natura, l’amore, le sostanze, gli dà se stesso. Ecco: ai piccoli è rivelata. E il piccolo è quello che non sa, che non può, è lo sprovveduto. Nel Vangelo, dei piccoli fanno parte anche i peccatori. Quindi, piccoli sono tutte quelle categorie disprezzate, che non hanno il sapere e il valore di autosufficienza, quelle categorie nelle quali vediamo il bisogno.
Dove c’è il bisogno lì c’è il desiderio. Dove c’è il desiderio c’è la domanda. Dove c’è la domanda c’è il dono. E Dio è dono e può donarsi solo a chi gli domanda, gli chiede, cioè a chi ne ha bisogno. Quindi nessuno che fa da padreterno capisce Dio. E in fondo c’è un “piccolo” in noi che è la nostra verità profonda, che è il nostro bisogno di esser voluti bene, è questa la nostra verità che coglie Dio. E tante volte tutta la nostra vita è un tentativo di soffocare questa nostra verità, diventiamo sempre peggiori, e vivere è sostanzialmente un male. Però si dà anche l’ipotesi contraria, che la nostra vita è un diventare piccoli in questo senso, è un riconoscere sempre più la nostra verità ed è un crescere in essa.
Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.
La prima parola: Sì. Nella seconda lettera ai Corinti si parla di Gesù come il Sì, l’Amen, Dio è tutto e solo Sì. Se si dovessero trovare due parole che definiscono Dio, certamente la prima è Sì. Dio è solo e tutto sì. Non conosce il no. Il Sì è l’apertura è l’accoglienza, è la condiscendenza, è la disponibilità, il Sì è tutto. L’altra parola è che Dio non sa contare più di uno, perché ognuno è uno ed è solo, ed è tutto. E Dio è tutto Sì e per ciascuno, come se fosse uno, come è sì al Figlio. E il Sì non è altro che lo Spirito Santo che è il Sì che il Padre dice al Figlio e il Figlio dice al Padre: la che l’uno ha dell’altro.
«Così è piaciuto a te». Cosa piace a Gesù? Ciò che piace al Padre. Che cosa piace al Padre? Ciò che piace al Figlio. Ognuno prova piacere nell’altro. In queste semplici parole è contenuta la Trinità. Mi piace sottolineare il fatto: «è piaciuto». Perché il senso è anche: così hai giudicato bene, c’è un’adesione anche affettiva.
Tutto mi è stato dato dal Padre mio.
Al Padre è piaciuto dare tutto al Figlio. Gli ha dato la natura divina. Tutto ciò che Dio è come Padre, lo è il Figlio come dono. Gli ha dato la sua vita che è lo Spirito, il suo Amore, gli dà se stesso, in un’unità indissolubile ma nella distinzione, appunto perché l’amore è distinzione e non divisione, è unità di distinti. Tutto ciò che il Figlio ha ed è, è dono del Padre. Il percepirsi come dono d’amore è la cosa fondamentale della vita. Se no, che sono? Sono un debito, se non sono un dono. Gesù è il primo che percepisce tutto se stesso come dono d’amore del Padre, a differenza di Adamo che volle rapire il dono, l’eguaglianza con Dio. Gesù è sì al dono, cioè accoglie se stesso come dono d’amore. «Tutto mi è stato dato dal Padre mio»: il Padre è colui che tutto dà, il Figlio è colui che tutto riceve.
Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio.
Sembra sia adombrata un’inaccessibilità: il Figlio e il Padre hanno una conoscenza che non è solo mentale, concettuale, ma una conoscenza complessiva, vitale. Però l’inaccessibilità sarà squarciata quando il Figlio la aprirà anche all’uomo. Nessuno conosce il Figlio se non il Padre: vuol dire che il Figlio può esser conosciuto solo dal Padre e il Padre è il Signore del cielo e della terra, cioè Dio. Il che vuol dire che il mistero del Figlio è il mistero stesso di Dio. Il Padre lo conosce, dove conoscere vuol dire amare. Il Figlio non è altro che l’amore e la conoscenza del Padre. E a sua volta il Figlio cosa fa? È conoscenza, è amore verso il Padre. Per cui Dio non è altro che amore reciproco tra Padre e Figlio.
Allora qual è il grande dono che ci viene fatto? È il dono di diventare Dio. Come il Figlio, di avere il suo Spirito. Ma non per modo di dire. Non solo siamo chiamati, siamo in realtà figli di Dio. Anche se quello che siamo non è ancora evidente, tutta la storia non è altro che la rivelazione progressiva della gloria dei Figli di Dio. Fino a quando lo vedremo come Egli è. E allora saremo come Lui.
*sacerdote della Compagnia di Gesù e biblista
Il testo è una sintesi redazionale della lectio divina tenuta nella Chiesa di San Fedele in Milano nel corso di vari anni. L’audio originale può essere ascoltato qui.
Nella foto, Emanuela Volpe, «Cristo», calligramma di Matteo 11, 27 (Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo); acrilico su tela; cm 80 x 100; 2011 – per gentile concessione di Galleria Blanchaert