Se ne sono andati

Se ne sono andati

Ágota Kristóf

(30 ottobre 1935 – 27 luglio 2011)

Scrittrice magiara di lingua francese e cittadinanza svizzera. È morta a casa sua, a Neuchâtel, dove viveva da oltre mezzo secolo. Col suo primo marito, un professore di storia sposato quando lei aveva 18 anni, erano fuggiti dall’Ungheria nel 1956, nel novembre della rivolta e dei russi che intervenivano con i carri armati. Avevano una bambina di quattro mesi, sarebbero diventati dei rifugiati a Zurigo, poi a Losanna, e alla fine dei cittadini del Cantone di Neuchâtel. Lei avrebbe sempre detto di essersi pentita di quel matrimonio e di quella fuga, voluta dal marito «per paura di essere arrestato dai sovietici». Avrebbe aggiunto che «due anni di galera in Urss erano probabilmente meglio di cinque anni di fabbrica in Svizzera».

Più duri anche di quanto non fosse stata per lei la guerra. Si riferiva al suo primo lavoro, «sfinente», in una fabbrica di orologi di quel Cantone: «Mi svegliavo alle 5, vedevo mia figlia di sera, ero spesso malata. Ma durante il lavoro, scrivevo, a pezzi, a intervalli. Perché era la cosa che ho sempre voluto fare».
È stata chiamata la scrittrice «dell’esilio e del dolore», oppure la «grande scrittrice apolide». Sull’assenza di cittadinanza, come stato particolare dello spirito, Ágota Kristóf è stata più integrale, legando il concetto alla scrittura: «Solo annullandosi, si può diventare scrittori». E anche: «Non si può vivere altro che per scrivere. Ma questo non impedisce di lavorare o avere una famiglia». Dopo aver fatto quel lavoro, e con una famiglia ricreata (un secondo marito svizzero, da cui divorzierà e altri due figli) Ágota arriverà, fra il 1987 e il 1991, a farsi conoscere, riconoscere, e tradurre in 33 lingue, attraverso la sua Trilogia della città di K. (in Italia pubblicata da Einaudi), un corpo letterario di tre libri, giudicato un capolavoro della letteratura francofona: Il grande quaderno, La prova, La terza menzogna. I luoghi e i caratteri sono tutt’altro che apolidi perché sono ungheresi. Tutto accade in quel Paese originario, nelle sue città e villaggi, negli anni della guerra, della paura, delle menzogne. E dopo. «Volevo parlare delle sensazioni dalla mia città, dei miei fratelli, del mio Paese». Quei tre libri sono – dentro una vita svizzera e irreversibile per forza di cose – un «tornare ma dover abbandonare tutto». Ágota Kristóf è sempre disperatamente originale nel sistemarsi in un territorio che non coincide con l’esilio e neanche con l’emigrazione. È dentro e oltre le sue origini, perché la sua vita (piena di rimpianti consapevoli e nominati a distanza) è andata così. Un commento post mortem l’ha centrata con un’immagine molto bella: «Si sente che ha sofferto, che è ultrasensibile. Ma quando parla, o scrive, o racconta, non analizza. Constata. Sorride davanti alla follia degli uomini, come un’asiatica che ha vissuto la guerra».

Nelle interviste, avare di circonlocuzioni letterarie e deserte di intellettualismi, gli intercalari con cui sottolinea se stessa, o il suo pessimismo, sono questi: «Oui, ce serait bien», «Ça Va», «C’est égal», «Je m’en fous». Una bella sfida, anche al Tempo, oltre che una cortina difensiva: d’altronde il libro successivo alla trilogia, si chiama Ieri, ma è svizzero perché le cose succedono lì. E sempre in Svizzera, Neuchâtel, la sua città, lei la guarda come «une petite ville ou les habitants, le soir, passe la vie».
Quando aveva iniziato a scrivere, nel 1972, aveva scelto pezzi per il teatro. Ne erano venuti fuori una decina. In uno dei primi – John et Joe – ci si parla così. John: «Fa bel tempo, Joe». Joe: «Oh, sì, John». Silenzio. John: «E come ti va? («Et comment ca marche?»).

Da ragazza, quando studiava, amava la matematica. Da adulta, in una di quelle interviste, stringate, avrebbe precisato se stessa: «Ne ho abbastanza delle cose sensibili, o della menzogna dei sentimenti. Voglio solo essere giusta». La prima menzogna l’aveva colpita, da bambina, a sei anni, nella fattoria del suo villaggio di Csikvánd, dove cresceva senza acqua, senza stazione, senza luce elettrica: un pastore che veniva ogni tanto a trovare i suoi genitori (insegnanti) l’aveva fatta innamorare. Lei gliel’aveva detto, e lui le aveva promesso che l’avrebbe sposata, da grande. Diventata grande, e svizzera, in un’altra intervista, Ágota avrebbe informato che «quel pastore ne aveva sposata un’altra, e mi aveva mentito». Aggiungendo: «Detesto gli scherzi». Avrebbe smesso di scrivere libri nuovi nel 2005 (l’ultimo, C’est égal, è una raccolta di spunti di trent’anni prima), esponendosi così: «È faticoso, o doloroso, scrivere. Ho l’impressione di aver quasi detto tutto».

Ibrahim Quashoush

(1969 – 5 luglio 2011)

Cittadino siriano, di Hama, poeta e cantante. In quella città del centro ovest, da mesi in rivolta contro Bashar al-Asad e il suo regime (nel solo mese di giugno sono state ammazzate 65 persone), faceva il pompiere. Aveva 42 anni e tre figli.

A distanza di quasi un mese, la scena del suo assassinio e di lui morto, denunciano due cose apparentate – un delitto politico esibito in forma mafiosa – e lo cantano, perché scriveva versi e musica contro la dittatura. Un martire, già chiamato «l’usignolo della rivoluzione», e uno dei 1.600, o più, civili siriani, falciati in piazza o eliminati singolarmente dalle forze di sicurezza di quel regime (vedi l’infografica).

Il cadavere di Ibrahim, ritrovato il 6 Luglio, era abbandonato sulle rive del fiume Nahr al-’Asi (l’Oronte dei tempi antichi) con la gola tagliata e le corde vocali strappate. Vengono in mente i corpi di Carlo e Nello Rosselli pugnalati dai sicari fascisti francesi (che avevano agito su committenza di Mussolini), in uno snodo di campagna della Bassa Normandia, nel 1937.
Quashoush era un segnato, da tempo. Il refrain della sua più celebre canzone – una specie di «Allons enfants» per i siriani in lotta – centra in pieno il dittatore, lo inchioda senza enfasi: «Avvitati, fottiti, Bashar, insieme a quelli che ti salutano militarmente. Dai, Bashar, è arrivato il momento che tu ti tolga di mezzo!». Migliaia di cittadini – citoyens, tanto per restare sul rimando rivoluzionario francese – cantano oggi quella strofa d’attacco, urlata anche per tracciare un futuro. Insieme ad altre, sempre di Ibrahim, che parlano di un’insurrezione di tutti: «Siamo musulmani e cristiani/ che chiedono libertà/ e sono grati alla città di Dara’a / che ha iniziato questa pacifica rivolta».

Come succede ai poeti che muoiono per i loro versi e le loro canzoni, il ricordo dei loro amici può diventare un frammento lirico, oltre che biografico. Saleh Abu Yaman, un amico intimo, ha parlato di come Ibrahim avesse sempre trovato il tempo, e il piacere, di scrivere versi e canzoni «d’istinto». Trattando i temi «dell’amore», o della «durezza della crisi economica», seduto in cerchio insieme a chi amava, e recitando, o cantando quello che aveva appena scritto. Sempre Yaman, ha raccontato l’ultimo Ibrahim, il suo rapimento: «Un testimone ha visto Quashoush che passeggiava, nel centro di Hama, per andare al lavoro. Ha anche visto una macchina fermarsi, e diversi uomini che balzavano fuori, lo afferravano, e lo spingevano violentemente all’interno. Poi sparivano a tutto gas». E, il giorno dopo, il corpo sull’Oronte, straziato in quel modo. «Un atto puramente criminale, un’esecuzione, un messaggio del regime», ha chiarito Omar Idilbi, portavoce dei Comitati di coordinamento della protesta in quella città.

I poeti, o gli scrittori d’opposizione, sanno scrivere d’istinto, e poeticamente, di chi rischia scrivendo o cantando, e spesso lasciandoci la pelle. Anche Bertolt Brecht lo ha fatto: «Sì, un tempo verrà in cui/ questi avveduti gentili adirati,/ questi esseri di speranza pieni,/ questi che in nuda terra a scrivere sedevano/ circondati da umili e da combattenti,/ pubblicamente verranno esaltati». Gentile, adirato, pieno di speranza: Ibrahim Quashoush era anche lui così (come Garcia Lorca, e tante altre voci, ammazzate in quei modi). Non voleva essere «avveduto». Per questo, è già pubblicamente esaltato. Nonostante Bashar non si sia ancora «fottuto». O il mondo non l’abbia ancora «tolto di mezzo».

Il quadro di questa settimana: «Dinner with Candles», della pittrice ucraina Angelica Gerih, olio su tela, 2010.