Se ne sono andati

Se ne sono andati

Sir Roy Redgrave

(16 settembre 1925 – 3 luglio 2011)

Alto ufficiale inglese, delle Royal Horse Guards, con incarichi un tempo importanti. A Berlino e in Cina, soprattutto. Gli altri suoi nomi propri erano Michael e Frederick. Soprattutto Michael, seguito dal cognome Redgrave, è un richiamo al gran teatro inglese, e al cinema. In modo immediato, a quella famiglia piena di talento e di attori. Sir Roy c’entrava in via collaterale: nipote (di zio) di Sir Michael Redgrave, e quindi cugino (a metà) di sua figlia Vanessa.

Se la storia della Gran Bretagna nel mondo è stata anche cinema, alta rappresentazione di se stessa, non è difficile dare a Sir Roy un primo piano nei ruoli che ha avuto. Come uno di quei bravissimi attori inglesi (da Trevor Howard, ai fratelli Fox, all’ineguagliabile Alec Guinness) che quando si mettevano in uniforme kaki, sembrava che ci andassero anche a dormire nella vita reale, fuori dai set del fiume Kwai, dei passaggi in India, o delle azioni coperte Oltrecortina. Con quel cognome, Roy Redgrave in missione costante provocherebbe ancora oggi uno strabismo immediato (poteva sembrare più un attore in divisa, o un serio, e reale, soldato dell’Imperial Retreat?) se non fosse per il fatto che nell’universo inglese che si smantellava a partire dal dopoguerra, le due parti si affiancavano come in un docufilm. Spettacolo e geopolitica, riposizionamenti, o interventi, o interessi, e forme adeguatamente offerte.

E allora, come in un film storico con intermezzi e attori presi dalla vita secolare e un po’ recitata, l’inizio, in questo caso, è stato sontuoso: con Sir Roy che, il giorno dell’incoronazione di Elisabetta II (2 giugno 1953), comanda l’Hyde Park Horse, cioè coordina, in uno dei punti più reali, o royal, della capitale, l’omaggio delle Horse Guards, le guardie a cavallo. Passaggio di scena, qualche anno dopo, con spostamento nell’estremo Sud Est mediterraneo, a Cipro, ancora colonia britannica: un set di guerra civile, con Londra che prepara l’indipendenza dovendo far fronte alla peggior guerriglia locale, quella fascistoide e panellenica dell’Eoka del colonnello George Grivas.
A Nicosia, Roy Redgrave interpreta al meglio la sua parte di comandante militare di quella piazza e dell’isola (non piccola): prepara il passaggio di poteri (al saggio arcivescovo Makarios III, padre del nuovo Stato) neutralizzando il più possibile le azioni terroriste di quel gruppo che punta a far fuori l’arcivescovo e a unire, di forza e in minoranza, Cipro alla Grecia. Terza locazione, nel 1975, con ripresa in Europa, nello stomaco della Guerra Fredda: a Berlino murata, file di Vopos malpagati, cittadini dell’Est che ogni tanto provano la grande fuga, spie e militari delle Quattro Potenze internazionalizzate, sono la sceneggiatura che Roy deve scorrere ogni giorno al comando del settore inglese della città. L’azione è di guardia, da checkpoint, e il modo in cui viene interpretata è del tutto convincente. Al punto da fargli assegnare quello stesso costume, per il prossimo ruolo, in una delle baie più seducenti e redditizie fra i resti dell’Impero. E così, nel 1978, il Mar Cinese Meridionale accoglie il cugino di Vanessa Redgrave, incaricato di proteggere l’ordine – o quell’organizzatissimo e concentrato disordine – della gloriosa colonia di Hong Kong.

Il suo film lì dura due anni, ci lavora fino al 1980. Ma quante cose deve essersi sforzato di cogliere dentro a quel soggetto a cui George Orwell avrebbe potuto mettere mano. Mentre lui, in quella città stipata e isolana fa la sua parte non troppo complicata, ogni giorno (quei sei milioni di cinesi, e quella massima piazza finanziaria sono mondializzati, britannizzanti, e, soprattutto, liberi) l’enorme fratello che sta alle spalle, rimodellando se stesso su un preoccupante ossimoro – il socialismo di mercato – aggiorna la sua tutela sulla colonia. Nel fondo, il nuovo chairman cinese Deng Xiaoping (nonché futuro massacratore della Tiananmen) e la nuova premier di Londra Margaret Thatcher condividono qualche idea globale: il primato dell’economia individuale, o, in sintesi, dell’arricchimento deregolato. Il punto di rottura, e poi di negoziato, locale sta nella proprietà di Hong Kong. Già affittata dagli imperatori Manciù agli inglesi per un secolo, con scadenza nel 1997. Roy Redgrave se ne è già tornato a Londra da qualche anno (per restarci, tranquillo e vitale, e molto decorato in mezzo alle sue guardie a cavallo) quando la signora Thatcher si arrende alla restituzione. Gli anni prima del passaggio sono tra i più civili, con un ultimo governatore – l’allegro Chris Patten – che arriva lì con due belle figlie, e mette in piedi, facendo imbestialire i pechinesi, un’assemblea legislativa eletta dai cittadini. Il giorno del trasferimento, o del ritorno, di proprietà (30 giugno 2007), è mesto ma teatralmente sostanzioso: le trombe, Carlo d’Inghilterra in rappresentanza della Corona, la marcia delle guardie inglesi così diversa da quella dei cinesi, imbustati nel passo dell’oca. Al Tg2 italiano, il cronista in diretta si scatena: «Un balzo d’orgoglio dell’Asia». Mentre a Londra, Sir Roy Redgrave può aver pensato, anche lui con un certo orgoglio, di essersi risparmiato l’ultimo tempo di quel film.

Tom Gehrels

(21 febbraio 1925 – 11 luglio 2011)

Astronomo olandese, di Haarlem, trasferito da molti anni a Tucson, Arizona. Dove ha insegnato nella locale Università, e dove è morto a 86 anni e cinque mesi. Quello Stato americano ha come attrazione anche il Meteor Crater, la più larga e profonda traccia lasciata sulla Terra da un asteroide piombatoci addosso ventimila anni fa: 1.300 metri per 180. Gli asteroidi vengono anche vezzeggiati col nome di «pianetini».

Il che è esatto, come sintetizzava proprio Tom Gehrels nel 1997: «Gli asteroidi hanno formato, compattato il nostro pianeta, portando l’acqua e altri mattoni della vita. Hanno anche cancellato intere forme viventi, probabilmente i dinosauri».
Tom, essendo stato uno dei più bravi mappatori del cielo, un vero cosmopolita (o «cittadino dell’universo») capace di stanare qualche migliaio di asteroidi e non poche comete, ha reso più familiare anche un sogno-incubo risolutivo di tutto: un nuovo arrivo di un pianetino con derivato e irrimediabile cataclisma. Da lui, e da altri suoi colleghi, veniva citato ogni tanto Eros, uno fra i 200 corpi celesti di quella famiglia, che tuttora si aggirano un po’ a rischio nei dintorni della nostra orbita. Ma la rassicurazione sua, e degli altri astronomi, è sempre valida: per almeno un secolo, possiamo non angosciarci o non immaginare una deresponsabilizzazione così definitiva.

Le comete che ha scoperto si chiamano, cifrate in scala progressiva, col suo cognome (78P/Gehrels, 82P/Gehrels, 90P/Gehrels, eccetera), i pianetini rimandano agli dei e agli eroi dei miti: Apollo, Dedalo, Phtah (un omaggio, questo, all’Egitto antico). Dato il modo di lavorare, scientifico e di interscambio, di Tom, quegli asteroidi hanno avuto di fatto due padri e una madre: dall’Osservatorio del Monte Palomar, per decenni, lui mandava lastre, dati, e spunti di ricerca, all’Osservatorio di Leida, nella madrepatria olandese. I destinatari, la coppia van Houten – Cornelis Johannes e Ingrid, astronomi, ovviamente – gli rispedivano le loro elaborazioni e i loro risultati. E così, migliaia di pianetini flottanti nell’anonimato atemporale dello spazio, sono stati svelati e nominati attraverso questa triplice intesa.

Ma Tom Gehrels è stato anche un cittadino del mondo: se oggi qualche ex studente di Paesi presumibilmente poco battuti dall’aggiornamento scientifico (per esempio l’Uzbekistan o la Corea del Nord) può avere un ricordo istruttivo di quel geniale olandese, è perché Tom, una trentina d’anni fa, in un celebre corso patrocinato dall’Onu ad Ahmedabad in India, aveva insegnato bene. O lasciato qualcosa. Lo ascoltavano soprattutto studenti asiatici, nordcoreani e uzbeki (allora sovietici) compresi.

Non gli è mancato neanche il senso della Storia, e di qualche sua verità da non imbellettare sotto il trucco della laicità della scienza. Da ragazzo aveva fatto parte della Resistenza olandese, e quando la rivista Nature gli chiese di scrivere su Wernher von Braun e sulla sua “specialità”, Tom fu più completo: nell’articolo si parla anche delle «regolari responsabilità di von Braun nel piano organizzativo del campo di concentramento nazista di Mittelbau-Dora». Per essere ancora più onesto, e intelligente, avrebbe chiarito: «Von Braun non ha bisogno di una falsa difesa, data la sua grandezza nel nostro campo. Siamo noi ad aver bisogno di una prospettiva storica più articolata».

Itamar Augusto Cautiero Franco

(28 giugno 1930 – 2 luglio 2011)

Presidente del Brasile dal 2 ottobre 1992 al 1°Gennaio 1996. Il primo cognome, Cautiero, era quello di sua madre, italiana, e che si chiamava Italia. Un presidente considerato «di passaggio», con un predecessore – Fernando Collor de Mello – destituito per corruzione (con tanto di impeachment parlamentare), e con una serie di snodi non di poco conto per un Paese già in fase di emersione e di prima fila come quello: riordino economico, austerità, rilancio dell’iniziativa privata, politica sociale, perfezionamento del sistema democratico. E poi, un presidente che ha dovuto e voluto affiancarsi, per circa una giornata referendaria, a un’ombra storica fra le migliori del passato brasiliano.

Quell’ombra, ma mica tanto, era l’ultimo sovrano del Brasile, il “magnanimo” imperatore Dom Pedro II (destituito da un colpo di Stato di repubblicani reazionari nel 1889), e l’eventuale rientro d’attualità della forma monarchica. In concreto, e giustamente, Itamar Franco, come in un anno uno, o due, della ricostituita democrazia brasiliana, firmava l’approvazione (condivisa dal Parlamento) di un referendum istituzionale, dove si chiedeva anche ai cittadini se volessero o meno un sistema parlamentare. Con tutte le differenze dei rispettivi retroterra, una specie di 2 Giugno a Brasilia.

E questo, dentro quegli strani, e postcontemporanei, anni Novanta, e con un richiamo obbligato al caso spagnolo: Juan Carlos regnava così bene a Madrid, dopo un altro Franco, fra i peggiori, e oltretutto senza preventiva consultazione popolare. Sondaggi alle mani, non c’era nessuna speranza per i sostenitori della Corona (gran parte dei socialdemocratici, e molta città di San Paolo) anche se il simbolo citato teneva bene: per 58 anni (dal 1831 al 1889) Dom Pedro era stato un imperatore costituzionale, un difensore del Paese, il sovrano che aveva abolito la schiavitù, un gentiluomo in borghese, un lavoratore senza orari, un uomo innamorato della lettura e delle lingue (se la cavava bene anche con l’arabo, l’ebraico, e un po’ di cinese, parlati e scritti). Con lui si erano scambiati lettere e stima Nietzsche, Victor Hugo, Manzoni, Richard Wagner, e Pasteur. Fra gli altri. C’era il problema dei suoi discendenti e collaterali, i pretendenti, che erano troppi. Quattro, tutti della casata (Orléans e Bragança): come in una finale di calcio, o in una primaria senza esito, il “ramo di Rio” schierava Dom Pedro de Alcântara (perbene e democratico, ma ottantenne) e Dom João Henrique Gonzaga (surfista, fotografo, ecologista) contro il “ramo paulista” rappresentato da Dom Luiz (cattolico integrale, con voti di castità, favorevole alla pena di morte, e di 54 anni) e dal suo giovane fratello Dom Alberto (35 anni, di convinzioni costituzionali, bravo avvocato).

In più, la legge referendaria approvata, stabiliva che, in caso di maggioranza monarchica, qualsiasi cittadino brasiliano con le carte morali in regola, avrebbe potuto farsi avanti. E così spuntò anche un pretendente nero, il “principe” Ogan Neninho de Obalmaye, discendente dal partigiano angolano Zumbi, che nel Seicento aveva resistito per molti anni ai soldati portoghesi. Il 21 aprile 1993 i brasiliani andarono a votare. L’eventuale Corona otteneva il 13,4 per cento dei voti contro la Repubblica che accumulava il 44 per cento. I massimi per la monarchia (fra il 14 e il 16 per cento) furono raggiunti a San Paolo, a Rio, e negli Stati di Espírito Santo e Rondônia. Il minimo (4 per cento) nello Stato di Piauí. I parlamentaristi ne uscivano meglio: 31 per cento contro un 69 per cento dei presidenzialisti. Itamar Franco era stato formalmente imparziale e costantemente onesto (anche se in molti, avversari, gli ricordavano la sua vicepresidenza con il corrottissimo Collor de Mello). Lo sarebbe rimasto anche dopo, rifiutando di modificare la Costituzione, per farsi rieleggere. Come invece ha fatto, nel 1998, il suo successore Fernando Henrique Cardoso. Meno corretto, e comunque molto attento a non risultare, anche lui, un presidente «di passaggio».

Il quadro di questa settimana: «Allison Reclining», del pittore statunitense Charles Pompilius, olio su tela di lino, 2009.

Rileggi gli obituaries delle scorse settimane:

Ottone (Otto) d’Absburgo-Lorena, Cy Twombly, Humberto Leal Garcia Jr. L’ultimo imperatore, un pittore inconsueto, un condannato a morte negli Usa, nonostante Obama.


Alan Rodger Barone di Earlsferry, Christiane Desroches Noblecourt, Brian Haw. Un giurista scozzese molto attento ai nuovi diritti, un’egittologa francese, un determinato oppositore di piazza inglese.

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