Post SilvioVent’anni buttati via: per questo sta vincendo la rabbia

Vent’anni buttati via: per questo sta vincendo la rabbia

Sono passati vent’anni e sembrano passati invano, se ci sentiamo tutti così vicini alla casella di partenza. In principio, alle radici della Seconda Repubblica, furono rabbia, indignazione, disillusione, sfiducia totale nella politica. Al termine di questa fase politica, le parole d’ordine riassuntive sono le stesse, e risuonano più forti ogni giorno che passa.
Tutto è iniziato nel 1991: con un referendum che gridava il bisogno di cambiamento radicale, di aria nuova, di voglia di decidere davvero chi ci doveva rappresentare e perché. Quel voto sul sistema elettorale aprì una falla non sanabile nella Prima Repubblica e diede legittimità politica a un’indignazione senza precedenti. Vennero poi le monetine a Craxi, il ruolo di Mani Pulite, gli assassini di Falcone e Borsellino, la rabbia in tutto il paese. E poi, a valle, arrivarono la valanga di voti alla Lega Lombarda di Umberto Bossi, gli errori di valutazione di Mario Segni e della sinistra italiana e la rapida ascesa di Silvio Berlusconi politico.

Lui, Giulio Tremonti e Umberto Bossi sono il tratto unificante di questo ventennio. Sono la fotografia della classe dirigente che è stata egemone, e non è stata scalfita dalle parentesi di serietà ereditata dalla Prima Repubblica di Romano Prodi, né tantomeno dal post-comunismo che scopriva il liberalismo e le privatizzazioni di Massimo D’Alema. Anche l’anti-berlusconismo militante e monotematico – dentro e fuori dal Parlamento – è riuscito al più a ritagliarsi una nicchia, e quasi un piccolo vitalizio del tutto incapace di incidere davvero sulla tenuta del blocco berlusconiano. 

Come è iniziata, l’egemonia Berlusconian-leghista, l’abbiamo ricordato. Cosa promisero a più riprese è presto detto: una macchina pubblica efficiente, liberata dagli sprechi; una burocrazia amica delle imprese, delle famiglie, di chi produce; un fisco più giusto e quindi più leggero; un taglio drastico all’assistenzialismo che consentiva a interi pezzi di paesi di fare da zavorra alle aree più industrializzate e sviluppate; una classe politica competente, non spendacciona, che si relazionava direttamente ai territori di provenienza ed elezione. Insomma, uno Stato più piccolo, più leggero, più efficiente e in definitiva più onesto nel suo rapporto coi cittadini elettori. Capace di supportare l’innovazione e la competizione. Berlusconi, a questo impianto liberale quasi classico volle a modo suo aggiungere un nodo caratterizzante della recente storia italiana: quello della giustizia. Che è stato e resta, indubbiamente, uno dei cortocircuiti più visibili della vita pubblica, politica ed economica di un paese che funziona (o non funziona) a traino delle procure. 

Vent’anni dopo, quindi, a che punto siamo? Il nostro debito pubblico, quello che obbligò Amato, Ciampi e poi Prodi a cure durissime all’inizio di questi vent’anni, è stabilmente a livelli record. Oggi, dopo aver attraversato la più grave crisi economica dal 1929, la cura di chi aveva promesso tutt’altro sono altre tasse – ed è storia di questi giorni, di queste ore – su chi produce e lavora. La nostra pressione fiscale, ovviamente, resta incompatibile con quel che serve alla crescita di un paese nel mondo difficile del 2011. Gli squilibri di un paese a due velocità, dopo tante promesse e altrettante minacce, hanno trovato risposta in un federalismo che dovrebbe trovare piena attuazione nel 2020: che conoscendo i tempi della politica italiana, vuol dire praticamente “mai”. La macchina dello Stato non risulta a nessuno che la frequenti più efficiente né veloce, mentre di un’epoca di privatizzazioni restano ai cittadini un pugno di mosche in mano. Alla fine della parabola, come ricorda Gabrio Casati in un libro per noi importante, si sono rafforzati il palazzo romano, interi ceti sussidiati da soldi pubblici e poche grandi imprese private che però fanno pareggio di bilancio grazie alle casse dello stato. La rendita, insomma, è sempre più forte dell’impresa e del lavoro. Non parliamo poi dell’agognata, promessa, minacciata riforma della Giustizia: che è rimasta sempre nei cassetti di un blocco politico e di un leader capaci di lamentarsi delle invasioni della magistratura e, probabilmente, di lucrarci, senza mai dare un respiro politico e culturale, e soluzioni vere a un problema serio di rapporto tra i poteri dello stato. Intanto, alla voglia di rappresentanza elettorale diretta, da cui tutto iniziò nel 1991, ha fatto posto una legge elettorale che consente ai partiti di nominare nelle stanze delle segreterie i parlamentari di tutta Italia.

Potremmo continuare a lungo, ma preferiamo fermarci qui. Il punto, dopo tutto, è semplice: siamo di fronte a un fallimento culturale irreversibile di un blocco politico, di una classe dirigente. Che aveva colto e interpretato delle domande strutturali, aveva vinto la fiducia del paese e avuto diverse occasioni per cambiare davvero il paese. Non è riuscita a fare quel che ha promesso, ciò per cui esisteva. Ed è per questo che, alla fine di questo ventennio, ci troviamo a raccogliere indignazione e rabbia ben aldilà dei confini di chi detestava Berlusconi, di chi era ossessionato dal conflitto d’interessi o, più tardi, da Patrizia d’Addario e da Ruby. No, oggi la rabbia e l’indignazione attraversano le generazioni, i territori e la Rete, e colpiscono un ceto politico ritenuto inadeguato, e di una classe dirigente egemone che non ha dato nessuna risposta. Vedere Bossi agitare nuovamente il cappio per Alfonso Papa, suo compagno di coalizione di lungo corso, per poi improvvisamente ritirarlo, è dopo tutto l’emblema di questa stagione: vent’anni dopo non è cambiato nulla, e chi prometteva moralità e forca ha perduto perfino il senso della vergona.

Noi, intanto, abbiamo perduto vent’anni: e sarà bene attrezzarsi in modo concreto e rapido per un futuro difficile, con una classe dirigente non compromessa in alcun modo con questo fallimento, prima che l’indignazione e la rabbia producano, ancora una volta, una nuova stagione di tempo perso e problemi irrisolti. Questa volta, per davvero, non possiamo permettercelo.
 

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