ROMA – Ore 19. È pieno agosto ma loro sono ancora qui, seduti al tavolino del bar di fronte che, da quando è iniziata la protesta, ha incassato un sacco di quattrini in più. Parlano a turno le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo. Sono sindacato di loro stessi perché quello vero l’hanno disconosciuto. Il loro è un modello assembleare. Incatalogabile. Si organizzano in vista del Festival del Cinema di Venezia al quale una delegazione del Valle occupato è stata invitata. C’è chi la butta lì: “Occupiamo anche a Venezia”. Prevale il buon senso: “Meglio portare una proposta concreta. Un modello nuovo per il cinema italiano, in modo che si riprenda il suo ruolo”.
Parla Benedetta. È lei la responsabile della comunicazione. Cicciottella, capelli mossi e un sacco da fare. Troppo indaffarata per stare lì a spiegare i perché dell’occupazione, passa la palla a Pia. È lei che parla con i giornalisti. Più in là, seduta su una sedia in seconda fila c’è Irene. Poi Laura, Sara, Tatiana (che specifica “io sono solo una volontaria”). Ma anche Emanuela che cataloga i libri e si occupa del decoro, verifica che le giornate vadano secondo i piani e che nessuno tenti di distruggere quanto, tutte insieme, stanno costruendo. Ci sono Giulia, Francesca e Giorgia, fascia rossa in testa e penna alla mano. Non si conoscevano prima dell’occupazione. Ora passano le giornate sedute fuori dal Teatro, come delle vecchine di paese, parlano di spettacoli, discutono sul programma in palinsesto per i prossimi giorni. Di fronte ci sono Sylvia (con la ipsilon) e Tania, entrambe attrici. Infine Manuela, regista, che al Festival di Napoli ha vinto anche un premio: l’Ubu per lo spettacolo Bizarra. Peccato che “per il mio lavoro non sono mai stata pagata”.
Sono loro, Tania, Sylvia e Manuela, tre delle coordinatrici del Valle occupato. Indispensabili. Sono le teste pensanti. Computer alla mano, stilano i contenuti, scelgono le parole, lavorano allo statuto, quello che poi andrà consegnato a chi prenderà in gestione il Valle. Lo scopo: farne un centro di arte drammatica tale da inaugurare una nuova stagione per le politiche culturali italiane. Rendere «questo teatro un bene comune, come l’acqua. Il passaggio di consegne avverrà perché noi, al contrario di quello che dicono i sospettosi, non vogliamo la gestione del complesso» però «ce ne andiamo solo se verranno accettate le nostre condizioni, se verrà applicato il nostro modello. Altrimenti, non ci schiodiamo».
Sono tutte donne queste occupanti. Benestanti, ben vestite, colte, italiano impeccabile, giovani ma soprattutto lavoratrici. Intermittenti. Sono tutte e tre pagate in nero. Anzi no, in bianco: solo i contributi. Chiedono garanzie. Sedute al bar, fumano con gestualità. Sembrano recitare, invece fanno politica. Seppur con delicatezza, con grazia.
È il loro corpo femminile, il corpo dell’occupazione. E anche i tempi e le modalità della protesta ricordano la gentilezza di certe donne. È femmina la mano che ha scritto i manifesti. È femmina la scrittura del calendario che ricorda i turni dei gruppi di lavoro. C’è il gruppo comunicazione, che comprende blog e social network, il gruppo “formazione ad agosto”, che prevede corsi e visite guidate all’interno del Teatro per chi “ignora quale sia la storia di questo complesso storico”. C’è il gruppo pulizie, quello cucina, quello decoro. Ci passano tutti, almeno una volta, a turno. C’è il gruppo spesa. Oggi tocca a Manuela. C’è lei dietro al bancone. È donna anche Irene che fino alle 21 raccoglie le firme. È donna Pia che racconta ininterrottamente la protesta. Ma guai a chiamarla una protesta rosa. Comandano le donne ma nessuno ha mai chiesto che fosse così. Nel senso che non è mai stata dichiarata una battaglia di genere. «Non ce n’è stato bisogno – spiega Sylvia -. Nessuna dichiarazione in nome del gentil sesso, nessuna presa di posizione al femminile. È venuto da sé ed è nei fatti. Su oltre 100 occupanti, volontari e stabili – conclude – il 70 per cento è donna».
Senza slogan e senza moralismo – tipico del femminismo nostrano – vigilano: si assicurano che il passaggio da una gestione all’altra venga effettuato con trasparenza. Osservano con costanza. Si fanno guardiane. Sono donne ma preferiscono dirsi lavoratrici. Per questo chiedono che il Valle continui a respirare, a vivere di spettacoli. Dormono a staffetta all’interno dello stabile, ne rispettano le regole: niente fumo, sì alla differenziata e all’ordine perché “il Valle non è solo nostro ma di tutti”. Però non vogliono che ne facciano un bar da quattro soldi e nemmeno un bistrot. Pretendono una “rivoluzione culturale” che parli di letteratura, di scrittura, di teatro, di musica, di cinema. Senza polemiche inutili (come quelle che invece vengono sollevate dalle donne di partito) parlano di loro, parlano di noi. Rispettano i dettami della “cultura della differenza”, dicono. “Ci unisce – spiega Sylvia, capelli corti e neri e occhi blu – la passione e il desiderio: la volontà di creare una comunità di persone che credano negli stessi valori”.
Oltre due mesi di occupazione senza tregua. Addirittura Manuela dice che “ero all’estero ma sono tornata in Italia solo per occupare il Valle”. Dal 14 giugno, e nessun tentativo di sgombro. Come mai? «Il Teatro è aperto sempre. Non possono accusarci di averlo blindato. Anzi, non ha mai smesso di lavorare. I nostri uffici – incalza Pia – sono efficienti, performanti e lavorativi. Al Comune non conviene mandarci a casa». Non solo. L’occupazione è ormai diventata un simbolo. «Il nostro movimento è nuovo, eterogeneo – spiega Benedetta, distrattasi solo per un attimo dalla riunione –. La gente cerca di etichettarci ma non ci riesce. Non siamo collettivi, non siamo femministe, non siamo tutti ragazzini ma nemmeno matusa. Cosa siamo? Lavoratori dello spettacolo. La nostra forza? Essere partiti dai singoli e non dalle sigle. Condividere esperienze umane. La novità? L’idea, ormai persa, di potersi riprendere la cultura. Potersi riprendere l’Italia».
Poche e semplici le rivendicazioni, tutte contenute nello statuto su cu gli occupanti stanno lavorando. Primo, ricostituire l’Eti, l’Ente teatrale italiano soppresso dal governo nel maggio del 2010. Secondo, il turn over. “Gli spettacoli, gli artisti e i direttori artistici devono cambiare frequentemente, garantendo a chiunque di poter fare arte liberamente a prescindere dalla volontà o dalle nomine politiche”. Terzo, trasparenza dei bilanci attraverso la loro pubblicazione in rete, elaborazione di un codice etico che sia modello per tutti. E ancora. Equilibrio tra formazione e ospitalità, una direzione artistica plurale, stipendi equi ma biglietti a prezzi accessibili. A tutto questo stanno lavorando le occupanti del Valle. Stanno lavorando ad uno statuto per una fondazione che nascerà e che “non dovrà essere privata”. Dovrà essere “attribuita ad un ente che gestisca il teatro, non politico, come è invece adesso che il Valle è gestito dal ministero della Cultura”. No anche a bandi e nomine. Perché “bisogna scindere l’aspetto economico da quello gestionale”. Infine, le persone. “Il modello che proponiamo dovrà essere estendibile ad altri spazi. Bisogna smetterla di parlare dei lavoratori dello spettacolo come di non lavoratori. Siamo dei professionisti, abbiamo studiato. Siamo noi il terziario, il “cognitariato” italiano, quei lavoratori che producono immateriale ma che in realtà producono ricchezza”. Con la cultura non si mangia diceva il ministro Tremonti. “Invece no – conclude Manuela. Finora con la cultura ci hanno mangiato tutti. Solo quelli che la fanno sono rimasti a bocca asciutta”.
Ore 21. Il Valle si prepara ad un’altra serata di cultura. In programma spettacoli ed eventi. Tutti elencati sul sito www.valleoccupato.it. C’è confusione. È l’ora della cena. Gli occupanti rientrano. Michela arriva con in mano una ciotola enorme piena di pasta fredda. L’ingresso, dove un tempo si facevano i biglietti, si trasforma in un ristorante. Tutti seduti, tranne lui. Francesco Carbone, romano nato nel 1945, ha la barba bianca e una mano malata, ma da 15 giorni dorme al Valle. Ha seguito la danzatrice Pina Bausch e la sua compagnia dal 1982 fino ai suoi ultimi giorni. È un fotografo professionista. «Mi riprometto sempre di tornare a casa ma alla fine resto. Appoggio questi giovani, li ascolto. Rispetto ai miei anni è tutto peggiorato. Una cosa è andata meglio. Almeno le loro proteste sono libere dalle ideologie, decidono in gruppo, non hanno capi. Un’arma? Il sorriso di queste ragazze».