Richard Lyman Cates
(22 novembre 1925 – 3 agosto 2011)
Giurista americano, nato a New York, cresciuto in un orfanotrofio, e, da ragazzo, giocatore di stickball nelle strade del Bronx e del Queens. Poi marine nella guerra di Corea, ma, soprattutto, procuratore distrettuale «fra i più rispettati e democratici». I due aggettivi usati da diversi giornali americani, erano seguiti dall’espressione «top level», per ricordarlo senza mezzi termini. In particolare a Madison, Wisconsin, dove ha insegnato, è vissuto, ed è morto. Lo si è citato per le cause, dove, da giovane praticante, difendeva gli studenti, o quando, più adulto e impratichito, torchiava alla sbarra ufficiali di polizia o poliziotti corrotti. Ma la persona più centrale delle sue inchieste è stato senz’altro Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, nel Novembre 1973.
Perché Richard Cates è stato uno dei giudici inquirenti dell’House Judiciary Committee, cioè la Commissione incaricata dalla Camera dei Rappresentanti e dal Senato americano, di mettere in stato di impeachment quel presidente, in carica, per lo scandalo Watergate.
Nel prologo di quella procedura si legge che il presidente degli Stati Uniti viene investigato, con richiesta di «impedimento», per «crimini e illeciti» («crimes and misdemeanours»). Andando avanti, fa impressione veder stampati gli specifici capi d’accusa, cioè tre articoli seguiti da spiegazioni circostanziate: ostruzione alla giustizia, abuso di potere, disprezzo («contempt») verso il Congresso.
Non fa impressione, invece, ricordare come l’impeachment non venisse messo in pratica, perché Nixon diede, drammaticamente, le dimissioni. Ma la morte di Cates, oggi, a 85 anni (onorato, a dir poco, per il key role avuto nel corso di quella procedura) ci fa rivedere quel dramma almeno sotto due angolazioni. La prima, più generale, riguarda le reazioni americane di fronte a una crisi di massima potenza, oltre a tutto dentro le proprie mura. Di fronte a un presidente che faceva spiare da anni con microspie i propri avversari politici, che violava le leggi, e che abusava della propria carica disprezzando gli eletti del popolo degli Stati Uniti, le reazione era partita velocissima, formale, a disposizione del pubblico, e adeguata al caso abnorme. A guardarla da oggi (imbottiti di informazioni sul default americano, e sul declino in atto della superpotenza, e forse di quella democrazia) i tempi del Watergate – nonostante il Vietnam quasi perso – sembrano ancora un’età aurea, e persone come Richard Cates degli eroi d’immagine, oltre che di pubblico servizio.
La seconda angolatura contorna proprio i «tipi Cates», e il loro ragionare, o il loro essere, dentro un ruolo improvviso, e in fondo anche vulnerabile (c’era in causa il presidente degli Stati Uniti). Val la pena di ascoltarlo, o di leggerlo, il procuratore Cates, mentre ricordava il suo primo piano in quel dramma: «Oggi, si pensa per lo più che il caso Watergate sia stato un fatto negativo. Non lo è stato. Tutto è stato fatto bene, e come era necessario. Non come per Bill Clinton, trattato come un caso politico. La nostra è stata una procedura giudiziaria, dove abbiamo rispettato l’integrità dell’essere umano che stavamo investigando. Ascoltando quell’uomo (Nixon, ndr), avreste potuto dire che stava realmente soffrendo. Quel poveraccio non sapeva neanche quali argomenti portare a sua difesa, perché, in realtà, non sapeva chi era».
Baruj Benacerraf
(29 ottobre 1920 – 2 agosto 2011)
Immunologo e Premio Nobel nel 1980, nato a Caracas, con nome, cognome, e radici nel Maghreb, ebraico-sefardite. Perché il padre era marocchino (commerciante di tessuti), e la madre algerina, e casalinga. Con massima sintesi, il New York Times ha ricordato il motivo di quel riconoscimento del Karolinska Institutet di Stoccolma: «Una fondamentale ricerca per capire come mai malattie specifiche come la sclerosi multipla, aggrediscano certe persone e non altre». Aveva 90 anni e dieci mesi, è morto a casa sua, a Jamaica Plain, Boston, Massachusetts.
Il Venezuela può fregiarsi del dottor Benacerraf, dato che lì era nato, ma il suo spostarsi un po’ dappertutto, lo fa assomigliare a quei medici andalusi del Medioevo (ebrei e arabi) che perfezionavano le loro ricerche in alcuni luoghi centrali del sapere scientifico e filosofico di allora: da Cordova al Cairo. Essendo un uomo del Ventesimo secolo, la sua spola è stata soprattutto occidentale: da Caracas, a Parigi, a New York, poi di nuovo in Francia, e alla fine stabilmente negli Stati Uniti. Il tracciato di un uomo a una vocazione – la sperimentazione empirica – ma dentro alla vita, e anche ironico: era già cittadino americano (dal 1943) quando decideva di completare il suo servizio militare «per curiosità intellettuale». Oppure: quando era già molto avanti nello studio del sistema immunitario, e della «reazione allergica», spiegava la sua passione col fatto «di essere agganciato alla vita, come un tossicodipendente lo è all’eroina».
Arrivato a New York con i suoi genitori all’inizio della guerra (da Parigi, dove era cresciuto, dai cinque anni, e come un bambino asmatico), scopriva, in parallelo, «l’amore per la scienza», le sue possibilità in una formazione come biologo e medico, e qualche vezzo non gradevole, ancora diffuso nelle scuole americane di specializzazione: dopo aver ottenuto una laurea in biologia alla Columbia, nel 1942, si era visto fare non poche pulci nell’ammetterlo in qualcuno di quegli istituti di medicina. «Il sospetto», come Benacerraf ha scritto elegantemente nella sua autobiografia, «partiva dalla mia condizione di straniero e di ebreo». Ostacolo probabilmente più isolazionista che razzista, perché il giovane ricercatore caraqueño-sefardita-francofono sarebbe entrato al celebre Medical College of Virginia, dove la compagine fra gli ammessi aveva comunque questi numeri: su 80 nuovi ricercatori, due erano ispanici, e tre ebrei.
Nella biografia di uno scienziato – di un Nobel, in particolare – spiccano, in genere, come gli elementi d’acchito di un bassorilievo, il momento della scoperta che cambia tutto, i tempi e i luoghi che la precedono, la figura della moglie, spesso infinita. Quando c’è. Nel caso di Baruj Benacerraf, la volata parte da quel 1943, l’anno della cittadinanza americana, e lo stesso in cui conosce e sposa la signorina Annette Dreyfus, francese (suo zio era Jacques Monod, altro Premio Nobel per la Medicina – ricerche sugli enzimi batterici – nel 1965). Matrimonio, come si dice, riuscito. Con discendenza di primo livello: Beryl, l’unica figlia, è radiologa e insegna alla Harvard Medical School (da non omettere che Paul, il fratello di Baruj, è un celebre filosofo a Princeton). La scoperta, cioè il botto, viene preparata in un altro periodo parigino, perché Baruj, negli anni Cinquanta torna nella capitale della sua infanzia (suo padre, malato, non può seguire gli affari del tessile, e chiede al figlio di occuparsene un po’) pensando di ridiventare un ricercatore francese.
Ma la «critical decision of my life» (sue parole) coincide invece col ritorno a New York, a cui seguono due passaggi, ad Harvard, e, soprattutto, al National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, Maryland. Le parole «allergy» e «infection» valgono come territori della scoperta. Che, molto in sintesi, consiste in questo. Ci si chiedeva perché certe persone avessero un sistema immunitario più difensivo di altre rispetto alle infezioni, e quindi perché i soggetti meno difesi fossero più a rischio di malattie autoimmuni, come il lupus, o la sclerosi multipla. Dove quel sistema attacca i suoi stessi tessuti. Baruj Benacerraf ha dato una risposta genetica: scoprendo come ogni persona abbia una sua specifica risposta immunitaria – variata di forza – e soprattutto come questa sia controllata da un gruppo di geni, chiamati, appunto, «geni di risposta». In quegli anni ricercare, e parlare, di una spiegazione genetica, era una sfida del pensiero. Benacerraf aveva poi teorizzato il carattere «evolutivo» della variazione genetica negli uomini e in altri vertebrati: una specie di adattamento che avrebbe assicurato la sopravvivenza di alcuni soggetti di una specie di fronte all’attacco di determinati virus. Ma quella stessa variazione poteva anche comportare una maggior vulnerabilità di certe persone rispetto a diverse malattie autoimmuni.
Volendo ricorrere a un balzo simbolico, si potrebbe dire che il sistema immunitario era il più sconfinato fra i Paesi esplorati dal dottor Benacerraf, e quello più comune a tutti, ma dove ognuno rispondeva e viveva a seconda della propria forza, o fragilità, ereditate lungo l’evoluzione. Nel 1980, il Premio Nobel toccava, in fondo, a uno scienziato profondamente umanista. Anzi ne toccava altri due – l’americano George Snell e il francese Jean Dausset – che avevano ricercato quella stessa risposta per decenni, e che quindi, come spesso si usa a Stoccolma in quella cerimonia, ricevevano dal re, in solido, quel riconoscimento.
Andrej Petrovič Kapitsa
(9 luglio 1931 – 2 agosto 2011)
Geografo sovietico, poi russo, nato in Inghilterra, a Cambridge, e laureato all’Università di Stato, a Mosca. Nel 1953, l’anno della morte di Stalin.
Uno scienziato e un insegnante non formale, e caloroso: i suoi studenti lo amavano molto, perché sembra li ascoltasse anche quando gli parlavano della loro vita privata. Un geografo legato ai ghiacci dell’estremo sud del pianeta, perché a lui si deve una delle scoperte antartiche più importanti del secolo scorso: quella di un enorme lago sottostante a quel Polo, chiamato, alla russa, Lago Vostok. Vostok vuol dire «oriente», ma quel nome al lago venne dato perché le prime ricerche erano partite dall’omonima base, o stazione, russa in Antartide. Potendola vedere solo dalle foto dei satelliti, quella distesa d’acqua subglaciale (larga 250 chilometri e lunga 50), sembra un cratere riempito d’acqua azzurra, una specie di piscina ancestrale.
Kapitsa, già molto giovane, si era fissato su quell’intuizione “polare”, dopo aver letto di alcune ipotesi già avanzate da diversi glaciologhi del mondo. Erano inglesi, americani, russi, o sovietici. In particolare, Pëtr Alekseevič Kropotkin nell’Ottocento era stato il primo ad aver teorizzato l’idea di centinaia di chilometri d’acqua “fresca” sottostanti a quel continente di blocchi di ghiaccio.
Le spedizioni di Kapitsa, e la scoperta conseguente, datano dal 1959 al 1964, durante l’ultima era Krusciov, e negli anni centrali della Guerra Fredda. Dalla Stazione Vostok, con un sistema sofisticato di sonde sismiche, lo scienziato e la sua équipe passarono dall’ipotesi alla certezza. Era una scoperta naturale importantissima (per la riserva d’acqua che conteneva, un aspetto inedito dell’ecosistema) ma anche strategica. Perché quel lago, piazzato nella parte sudorientale, dell’Antartico, sarebbe stato sovietico. E oggi russo.
Il nome di Kapitsa, della sua scoperta, e, in generale, del controllo delle parti molto fredde, o ghiacciate, della Terra (oggi divise al Nord e al Sud, fra russi, americani, inglesi, francesi, danesi, norvegesi) fa venire in mente il tempo in cui la Russia imperiale, a metà dell’Ottocento, si alleggeriva dell’ Alaska, vendendola agli americani. Per una questione di debito pubblico, perché le casse dello zar Alessandro II (nei tardi anni Sessanta di quel secolo) avevano bisogno di rinforzi liquidi. In dollari. I passaggi della trattativa sono tuttora fra i più interessanti da leggere: l’inviato dello zar, Eduard de Stoeckl, chiedeva sette milioni di dollari al Segretario di Stato americano William H. Seward. Che rispondeva con una controproposta di cinque. A cui il russo controbatteva con una cifra media di sei, preventivamente concordata con lo zar. Quando tutto sembrava perfezionato, e Stoeckl andava al Dipartimento di Stato per firmare, Seward gli comunicava che il governo degli Stati Uniti accettava l’acquisto alla cifra iniziale. Il ministro russo telegrafava subito a San Pietroburgo, e, poco dopo, arrivava la risposta di Alessandro: «Sua Maestà Imperiale si priva dell’America russa al prezzo di 7.200.000 dollari». Dal 18 ottobre 1867, la bandiera degli Stati Uniti sventolava nella città di Novo-Arkhangelsk, diventata Sitka. E un deputato del Congresso americano, il signor Banks, si scatenava: «Il possesso dell’Alaska darà agli Stati Uniti una supremazia commerciale e navale nel Pacifico, che sarà il teatro dei trionfi della civiltà futura. Là saranno forgiate le istituzioni del mondo, là saranno decisi i suoi destini».
Nessuno pensava ancora alla Cina, e l’Antartico, coi suoi laghi sommersi che Kapitsa avrebbe scoperto quasi cento anni dopo, sembrava appartenere a un altro pianeta.
Il quadro di questa settimana: «Fenders» («Parafanghi»), del pittore canadese cjeremyprice, olio su tela, 2011