Se ne sono andati

Se ne sono andati

Rudolf Brazda

(26 giugno 1913 – 3 agosto 2011)

Ex cittadino tedesco, e poi cecoslovacco (per origini familiari), e, dal 1945, francese. Aveva 98 anni, viveva in Alsazia, è morto nella casa di riposo di Les Molènes, nella città di Bantzenheim. Da sempre era stato chiaro con se stesso e con gli altri: «La mia omosessualità era una mia disposizione naturale che ho accettato come tale. Sono anche stato così fortunato da avere sempre avuto un compagno al mio fianco». Il primo, importante, si chiamava Werner, ucciso sul fronte francese nel 1940. Con lui, Rudolf aveva condiviso la vita, negli anni Trenta, e la progressiva recrudescenza delle leggi omofobe (il celebre Paragraph §175) in Germania, e poi nell’Europa occupata.

Rudolf è morto come l’ultimo testimone e l’ultimo sopravvissuto di quella persecuzione (il segno che il regime imponeva era un triangolo rosa). Rudolf era sopravvissuto a tre anni di campo di concentramento a Buchenwald: lì era stato internato l’8 Agosto 1942, per «attività omosessuali», e lì, fino alla liberazione, l’11 aprile 1945, avrebbe subito un periodo di lavori forzati, e poi, marce al gelo, e altre mansioni sfinenti nel mantenimento delle baracche, dei depositi d’armi, degli uffici “amministrativi”. Avrebbe visto, ogni giorno, come i nazisti perfezionavano le tecniche di eliminazione, o di sterminio, di ebrei, omosessuali, e internati politici.

Prima di Buchenwald, il decennio di Rudolf era stato segnato da questi fatti: un ultimo tempo di tolleranza sul finire della Repubblica di Weimar, e subito dopo, in progressione, controlli della polizia, mesi di detenzione, un’espulsione dalla Germania come «persona non grata», nella regione dei Sudeti (ancora ceca), e successivamente, dopo l’annessione del 1938, un processo nella città di Eger, oggi Cheb. Infine, la deportazione.
A Buchenwald, l’amicizia con altri detenuti, soprattutto politici comunisti, fu la fortuna di Rudolf. Una sorta di protezione spontanea. Con uno di loro, un francese alsaziano, Ferdinand (ex combattente nelle Brigate internazionali in Spagna), Rudolf deciderà di stabilirsi a Mulhouse, trovando anche un lavoro: riparatore di tetti, quello che aveva sempre fatto, in Germania e in Cecoslovacchia. Nella vita postbellica, francese e libera, arriverà un altro compagno di Rudolf: Pierre Seel, anche lui ex deportato per omosessualità, e conosciuto nei giardini pubblici di Steinbach. E poi, nel 1950, l’incontro con Edi Mayer, a un ballo in costume. Vivranno insieme fino alla morte di Edi, nel 2003.

Fino al 2008, Rudolf Brazda non farà conoscere la sua storia di perseguitato e internato omosessuale. Solo dopo aver saputo che la città di Berlino avrebbe ricordato quella persecuzione con un «Memoriale alle vittime omosessuali del nazismo» si decise a parlare: di se stesso prima di Buchenwald, e di quei tre anni di concentramento. Non riusciva a essere presente all’inaugurazione di quel monumento, il 27 maggio 2008, ma negli anni successivi, fino al 2010, avrebbe partecipato a diversi Gay Pride europei, e a ogni occasione di memoria pubblica.
Durante i dodici anni del regime nazista, oltre centomila persone furono schedate come omosessuali dalla polizia, e oltre la metà imprigionate per violazione del Paragraph §175. Fra le cinque e le quindicimila persone venivano internate nei campi, dove ne moriva la metà, in un solo anno.

Michael Cacoyannis

(11 giugno 1922 – 25 luglio 2011)

Regista di cinema, di teatro, e d’opera, greco-cipriota, di Limassol. Dov’era nato – con il nome originario di Mikalis Kakogiannis – quando l’isola era ancora colonia inglese. Con Londra e gli Stati Uniti ha avuto una relazione continua e ingegnosa, portando sulla scena, e sul set, anche la tragedia greca – Euripide, in particolare – e facendo diventare “troiane” attrici di prima bravura come Katharine Hepburn e Vanessa Redgrave. Oltre, naturalmente, a una giovane e supergreca Irene Papas. Ha sempre detto che far parlare in inglese gli eroi e le eroine di quel teatro era la sua «massima fonte di ispirazione, un andare dritto alle radici di tutti». È morto ad Atene, dove viveva, e alla cui architettura luminosa (l’Acropoli e gli altri resti teatralmente puntati dai fari, di notte) aveva sovrainteso negli ultimi anni.

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Diventato adulto in Inghilterra (dal 1939 al 1953), perché suo padre – un giurista conosciuto in tutta Cipro, e insignito di un cavalierato dell’Impero britannico – l’aveva mandato lì a studiare legge, Michael Cacoyannis ha anche messo in scena per primo, per gli inglesi, e per milioni di europei e americani filoellenici, quello che loro avevano in parte scoperto da un secolo e mezzo, e di cui continuavano a innamorarsi nell’aggiornamento di viaggi e di dolci vacanze: la Grecia moderna.

Un Paese meraviglioso, poverissimo, appena uscito da una feroce guerra civile (vinta dalla parte anticomunista con l’aiuto decisivo degli inglesi), che concentrava un massimo di opulenza proverbiale in pochi armatori da café society: Livanos, Niarchos, Onassis. E che odiava “il turco” restando molto turchesco: in filoni di musica, di cucina, in resti di paesaggio isolati in se stessi. Alla fame, quasi automatica, di Grecia classica, (le “radici” d’Europa, il bello nell’arte) da parte di un pubblico, ancora elitario, che arrancava felice verso l’Eretteo, o sguazzava nel mare cicladico, o anche in una vasca da bagno dell’Hotel d’Angleterre, ad Atene, Cacoyannis ha dato una, due, tre risposte. Cioè diverse Grecie in un corpo di film e di allestimenti teatrali, definiti «leggendari». E due attrici greche – due ritratti opposti ma complementari di quel Paese – scoperti, modellati, spesso fatti debuttare: Melina Mercouri, la modernissima, allegra e drammatica, e Irene Papas, la classica, o la tragica (diventata una star, in America, quando Cacoyannis l’aveva trasformata in Elettra, nell’omonimo film del 1961).
E poi, fra gli altri, due film, dove il regista – ispirato, o pepnoumenos, come Telemaco nell’Odissea – faceva fare al cinema greco moderno un passaggio di livello o «di rispetto», come ha scritto il New York Times. Con storie ateniesi o isolane, di vita coeva. Come Goethe, avrebbe potuto dire che stava riproducendo quel «mondo fuori», con i «mezzi del mondo che è dentro di me».

In Stella, del 1955, Melina Mercouri, è la «cortigiana del Pireo», una cantante di cabaret che muore fra le braccia del suo amante, dopo aver rifiutato la sicurezza nel matrimonio. Zorba il greco, del 1964, tratto da un romanzo di Nikos Katzantakis, faceva trionfare Cacoyannis (sette Oscar nel 1965) mettendogli le sbarre nella definizione ad aeternum, di «regista di Zorba il greco» La storia è truce: su un’isola, intorno alla modesta eredità di una miniera, danzano le vite drammatiche e un’amicizia a termine fra uno scrittore inglese e il greco Zorba, una sestaessenza di vitalismo disperato. Dentro una vicenda di suicidi e omicidi, prevalentemente femminili, per amore, o rifiuti d’amore. Zorba consacrava il suo interprete, Anthony Quinn (una faccia mediterranea, o tartara, o amerinda, buona per molti ruoli) e Irene Papas (nel film una delle vittime, una vedova, bellissima, con un’espressione euripidea al naturale). Faceva la sua prima parte anche la musica di Mikis Theodorakis, quel sirtaki ballato in finale, che diventerà stabilmente la colonna sonora della Grecia moderna. Lo canterà, struggente, Dalida, lo danzeranno i colonnelli negli anni del loro potere, durante le cerimonie paesane, lo proveranno milioni di adolescenti e ragazzi dopo aver sciato o sulle spiagge. Con esiti il più delle volte scoordinati nel passo e nel ritmo, ma non aveva importanza: quella era diventata un’altra corrente greca nel mondo.

Da quel Paese sirtakizzato e machista, nei sette anni della dittatura (1967-1974), Cacoyannis prenderà il largo, tornando alla sua origine di elleno filoanglosassone, e soprattutto di artista libero, lavorando in Inghilterra e in America. D’altronde, a Londra, durante la guerra, aveva respirato un sano tirocinio come speaker greco alla Bbc, poi aveva fatto un po’ l’attore, in teatro. Una formazione non stantia, o non classica. Nel senso più lato. Anche nella sua privatissima vita, dove, col massimo di eleganza, si sarebbe esplicitato così: «Ho vissuto una buona vita, anche se non ho mai messo in piedi una famiglia. Ho amato delle persone, e loro mi hanno amato ancora di più, oltre le frontiere convenzionali imposte dalla morale corrente. Ma soprattutto sono stato innamorato del mio lavoro». Quell’innamoramento avrebbe prodotto, fra l’altro, una versione cinematografica delle Troiane di Euripide, nel 1971. Si chiama The Trojan Women, recitano, insieme, Katharine Hepburn, Vanessa Redgrave e Irene Papas (che sarà anche una magnifica Ifigenia, in un film del 1976, di nuovo greco). La base, già sperimentata, di quelle Troiane (un dramma che oggi potremmo definire «contro la guerra») era un’allestimento per il teatro, a New York, nel 1963: le prove erano iniziate il 22 novembre, il giorno in cui John Kennedy veniva ucciso. Le repliche sarebbero state 600, fino al 1965. E sempre nel teatro, ma d’opera, tre regie di Cacoyannis sarebbero rimaste nella memoria di chi le aveva viste, ascoltando: una Bohème di Puccini, a New York, nel 1972, una Clemenza di Tito, di Mozart, ad Aix-en-Provence nel 1988, una Medea di Cherubini, ad Atene, nel 1999.

Se, con un azzardato aggiornamento, si volesse concentrare il numero delle Muse a tre (dalle classiche nove) dando nomi diversi, e oltrepassando la loro omogeneità femminile, il gioco sarebbe fatto. Con tre greci moderni, nati fuori dal centro ma con quel mondo «dentro di loro», e che parlavano naturalmente inglese, cioè la lingua del mondo (come lo era stata il greco classico). Eccoli qua: Maria Callas (o Anna Maria Sophia Cecilia Kalogeropoulos, di New York), Konstantinos Kavafis (di Alessandria in Egitto), e Mikalis Kakogiannis, o Michael Cacoyannis, cipriota di Limassol. Qui brevemente ricordato.

Bejaratana Rajasuda Sirisobhabannavadi

(24 novembre 1925 – 27 luglio 2011)

Principessa di Thailandia, e prima cugina del re Bhumibol Adulyadej Rama IX.

Un tempo, fra le famiglie reali, ci si chiamava cugini, e lo si diceva in francese: «Cher cousin», «chère cousine», eccetera. Entro una stessa dinastia, i cugini, rispetto al ramo principale e regnante, avevano diverse funzioni e caratteri: potevano fornire l’altra parte di un matrimonio fra consanguinei, anche se con esiti non eccelsi (Vittorio Emanuele III era figlio di due cugini primi, Savoia-Carignano e Savoia-Genova), oppure erano pronti a subentrare in caso di vacanza di eredi, o per ambizione, a volte favorita dalla Storia (gli Orléans rispetto ai Borbone, in Francia).
Più spesso, i cugini svolgono funzioni di rappresentanza, facendolo molto bene (Michele di Kent, in Inghilterra, è un ottimo esempio). Ai lati del trono, ma aumentandone la dignità, come degli ambasciatori interni alla famiglia reale, ma utilissimi al di fuori. Bejaratana Rajasuda, onorata alla sua morte da cento giorni di lutto imposti alla corte, è stata rimpianta dal Paese e dal re come una thailandese irreprensibile e irripetibile. Figlia unica del re Rama VI, dai 12 anni era cresciuta in Inghilterra (Londra, il Surrey, e Brighton, una cittadina non sempre mesta) perché allora ci si perfezionava molto bene in quel Paese.

Lì, durante la guerra, Bejaratana aveva anche fatto la crocerossina, e molti giornali inglesi lo hanno ricordato, con una certa gratitudine non formale. Tornata a Bangkok nel 1957, con sua madre – la principessa Suvadhana – ha constatato, anno per anno, quanto quel regno e quel re-cugino sfidassero il tempo (il re Bhumibol Adulyadej Ramadhibodi Chakrinarubodin Sayamindaradhraj Boromanatbophit è sul trono dal 1946), e si è organizzata per rendere massimi servizi al Paese. Oltre a rappresentare ufficialmente la famiglia in pubblico quando i sovrani non potevano, si è occupata accanitamente di ospedali, welfare, scuola, educazione buddista, e benessere dei soldati thailandesi dislocati ai confini.

Personalmente, sembra che fosse molto accogliente e acuta. Con una dote in più: una memoria fuori dal comune. Fino alla fine. Quando decine, o anche centinaia, di sudditi gli chiedevano un appuntamento, non aveva bisogno di far prendere nota, perché si ricordava tutto: nomi e date dell’udienza. E poi, come una memoriosa di un racconto a spirale di Borges, imparava, senza dimenticarsene più, le date di nascita di chi aveva appena ricevuto. Seguivano gli auguri di compleanno, e un’immediata gratificazione del festeggiato, o della festeggiata. Alla fine, una cugina seria e originale. Del re, e del Paese. 

Il quadro di questa settimana: «Figure With Beach Ball», dipinto della pittrice australiana Chris Wake.

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