Crisi dell’euro, la soluzione c’è e non richiede lacrime e sangue

Crisi dell’euro, la soluzione c’è e non richiede lacrime e sangue

C’è una buona notizia per l’Europa, ma ci ostiniamo a vedere solo macerie. L’euro, in effetti, è di nuovo sull’orlo del baratro, con il rischio concreto di cadere e sfracellarsi. I piani di risanamento della Grecia e dell’Italia potrebbero non dare i risultati sperati. Il conseguente deprezzamento dei titoli di stato greci e italiani si traduce in ingenti perdite per le banche tedesche e francesi che li detengono. Inesorabile, arriva il declassamento di queste ultime da parte di Moody’s. Nel frattempo, l’aumento dei tassi d’interesse, le difficoltà delle banche e le politiche di rigore dei governi concorrono a deprimere la domanda aggregata e a compromettere la già debole ripresa in tutto il continente, Germania compresa.

La depressione economica, a sua volta, alimenta le tensioni sociali e politiche. I lavoratori dei paesi debitori, oppressi dagli inasprimenti fiscali e dai tagli alla spesa sociale, s’indignano e scioperano contro l’oltraggio di politiche imposte dai creditori internazionali. I lavoratori dei paesi creditori, che sono più produttivi, ricevono stipendi più bassi in rapporto alla loro produttività e vanno in pensione più tardi, s’indignano e protestano contro il ripianamento degli sprechi altrui. I governanti degli uni e degli altri sono incapaci di formulare e perseguire in maniera autorevole una soluzione concertata, coerente e praticabile. Non sono leaders ma followers, come qualcuno giustamente ha osservato: cedono sempre di più al populismo e al nazionalismo, nel tentativo di blandire il proprio elettorato.

Del resto, sono chiari i segnali di un sentimento nazionalistico sempre più diffuso. In recenti votazioni, i partiti della destra xenofoba hanno guadagnato consensi, soprattutto nell’Europa del nord. Una collega tedesca che, in un convegno accademico, si è permessa di evidenziare le responsabilità del proprio governo nella crisi dell’euro e l’interesse del proprio paese a evitarla, ha ricevuto da un suo compatriota una lettera minatoria apertamente antisemita. Il ministro delle finanze olandesi ha proposto di concedere crediti alla Grecia solo in cambio di adeguate garanzie ipotecarie sui beni demaniali (come dire, il Partenone), secondo una logica punitiva che ricorda quella della Commissione per le riparazioni che tolse ogni speranza di riscatto alla Repubblica di Weimar, consegnandola al revanscismo populista e infine al nazismo.

L’atmosfera è sempre più simile a quella funesta del primo Novecento. Dopo che si è cercato di costruire l’unione politica dell’Europa sull’integrazione economica, e quest’ultima sull’unione monetaria, la disgregazione dell’euro potrebbe davvero minare alla base l’intero progetto europeo, lasciando nuovamente campo a possibili conflitti. Potremmo assistere, dopo cent’anni, a un nuovo “suicidio dell’Europa”.
Questa volta, peraltro, non ci saranno gli Stati Uniti a salvarci. Semmai, la Cina. E fa una bella differenza. Si vocifera che nelle ultime settimane il nostro ministero del Tesoro abbia negoziato la vendita di parte del debito sovrano italiano a un fondo sovrano cinese. Se il beneficio economico è chiaro, il costo politico è enorme. In gioco, per l’appunto, è una cessione – tanto più insidiosa quanto più graduale e impercettibile – di sovranità. E lo sa bene Tremonti, che qualche anno fa metteva in guardia contro un possibile “colonialismo di ritorno”. Complice il ministro, la nemesi è arrivata.

Lo scorso fine settimana, a un convegno sulla riforma della governance globale, un diplomatico di Pechino, commentando un mio grafico che raffigurava i crediti concessi dalla Cina all’Occidente, ha ammonito i presenti, in un americano impeccabile: ‘there’s no such thing as a free lunch’ (‘nessun pasto è gratis’). È il titolo di un libro di Milton Friedman del 1975, nonché il motto che ha accompagnato l’estensione del mercato su scala globale negli ultimi quarant’anni sotto l’egida della dottrina neoliberista. Paradossalmente, su quel mercato, gli americani hanno sempre potuto mangiare gratis, pagando con pezzi di carta. Oggi, l’apprendista egemone ha imparato la lezione e presenta il conto. La Cina non ha più intenzione di continuare ad accumulare dollari e titoli di stato, e ha cominciato a dismetterli per comprare beni reali, materie prime, infrastrutture: porti, dalla Grecia all’Estonia, autostrade, dalla Germania alla Turchia. Si può anche parlare di investimenti industriali e di alleanze strategiche. Ma, come giustamente mi ricorda Massimo Amato: lo abbiamo fatto anche noi un paio di secoli: si chiama colonizzazione imperialista, e “loro” non erano contenti…

Il quadro è fosco. E il modo in cui lo dipingono coloro che sarebbero tenuti a indicare una via d’uscita non contribuisce certo a schiarirlo. Al contrario. Le raccomandazioni delle autorità , politiche e scientifiche, suonano sempre più come prediche millenaristiche. Sul Financial Times di mercoledì scorso il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha formulato il suo penitenziagite: disponetevi all’astinenza e al sacrificio, o debitori, e riceverete, in cambio di una pena temporanea, l’indulgenza perpetua. Sulle stesse pagine, l’economista americano Barry Eichengreen invitava l’Europa a riconoscere la propria insufficienza e a invocare l’intervento celeste del Celeste Impero. Il breviario finanziario ce lo ripete ormai ogni ora: pentitevi, vestite di sacco, cospargetevi il capo di cenere, e sperate nella magnanimità del Sommo Giudice…

Ma la buona notizia qual è? È che non c’è alcun bisogno di vedere la cosa in questi termini! Anzi, simili raccomandazioni poggiano su una visione tanto scorretta e fuorviante quanto diffusa e radicata. Se soltanto ci liberiamo dagli abiti mentali che impediscono di apprezzare i giusti termini del problema, possiamo cominciare a vedere che una soluzione è a portata di mano. Due sono gli errori di prospettiva che rischiano di portare alla dissoluzione dell’euro e che sono ben esemplificati dalle posizioni di Schäuble e di Eichengreen. Bisogna che ci disfiamo di questi, prima di passare alla pars costruens.

Innanzi tutto, a dispetto dell’attenzione ossessiva che hanno ricevuto fin dall’inizio del processo di convergenza, non sono i debiti pubblici in quanto tali a costituire un problema per la tenuta dell’unione monetaria. Nella misura in cui i titoli del debito pubblico sono detenuti dai cittadini dello stato che li emette, non c’è alcun motivo perché se ne preoccupino gli stranieri. In altri termini, un debito pubblico nazionale diventa un problema internazionale soltanto nella misura in cui è detenuto all’estero. Una prova? Il debito pubblico giapponese ha potuto superare il 220% (duecentoventi percento!) del Pil senza provocare allarme, perché è in larga parte finanziato dai risparmi dei giapponesi stessi.

Una controprova? L’Irlanda è finita tra i Piigs a causa degli ingenti debiti esteri del suo sistema bancario privato, nonostante avesse un rapporto debito/Pil fra i più bassi d’Europa (circa 25% nel 2007). È stato il sovraindebitamento verso il capitale straniero, attratto da sgravi fiscali più che da impieghi produttivi, la causa della crisi irlandese: l’aumento del debito pubblico (fino a quasi il 100% del Pil) è soltanto la conseguenza dei salvataggi, resi a loro volta necessari dal fallimento di un modello di sviluppo basato sulla crescita delle attività finanziarie. L’Irlanda è un caso, ma un caso emblematico, di un sistema in cui gli stati si sono indebitati per salvare quei mercati che adesso ne deprecano l’ipertrofia – come i viandanti di Esopo che accusano di sterilità i platani, alla cui ombra hanno trovato ristoro.

Bisogna togliere, dunque, al debito pubblico il ruolo di arbitro delle sorti dell’Europa. E per almeno tre motivi.

1. Innanzi tutto, non è affatto quella misura obiettiva di buona condotta che si pretende: come è stato rilevato, i criteri di misurazione variano da un paese all’altro e, se s’includessero come altrove le passività della cassa depositi e prestiti tedesca (KfW), interamente garantiti dallo stato, il debito pubblico della Germania (che è già, in termini assoluti, il secondo del mondo dopo gli Usa) schizzerebbe dall’80 al 100% del Pil.

2. In secondo luogo, le misure restrittive volte a ridurre il debito non possono che aggravare la crisi, la disoccupazione e il disagio sociale, in un momento in cui tassi d’interesse ai minimi storici dovrebbero, al contrario, favorire gli investimenti: possibile che in Europa non ci sia nessun miglioramento infrastrutturale che prometta un ritorno anche solo del 2%? Il giusto proposito di ridurre spreco, corruzione ed evasione non dovrebbe impedire a nessuno stato di astenersi da investimenti produttivi.

3. Da ultimo, lasciando a ogni stato membro l’autonomia di decidere quanto indebitarsi con i propri cittadini, l’Europa dovrebbe preoccuparsi esclusivamente di quella parte dei debiti, pubblici e privati, che non sono finanziati dal risparmio interno. La proposta di Tremonti, di affiancare il risparmio privato al debito pubblico come criterio di stabilità, va nella giusta direzione, ma si ferma a metà strada. Perché guardare separatamente a due variabili, quando ciò che davvero conta è la loro differenza? È una questione di algebra: tutto quello che serve, per la riforma del patto di stabilità, è di considerare il debito pubblico al netto del risparmio privato, ossia il debito estero.

A questo punto, viene buona la seconda precisazione: i debiti esteri che oggi si faticano a finanziare sono fra i paesi europei, e non dei paesi europei con il resto del mondo. Sembra ovvio, ma evidentemente non lo è, se continuamente s’invocano finanziatori esterni, come il Fondo monetario o la Cina, e se si pensa addirittura di emettere degli eurobond, per consentire all’Europa di finanziarsi sui mercati internazionali.

Tuttavia, con buona pace di Eichengreen, l’area dell’euro nel suo insieme, a differenza degli Usa, non ha affatto un deficit dei conti con l’estero e, dunque, non ha alcun bisogno dei soldi degli altri. Sta qui tutto il drammatico paradosso della crisi europea, ed è bene imparare a vederlo: siamo vittime unicamente della nostra incapacità di darci credito a vicenda. Si è passati, con alternanza ciclotimica, da una concessione indiscriminata di credito a tassi pressoché nulli, a una restrizione altrettanto indiscriminata a tassi da usura. Se oggi si bastonano i Piigs è perché ieri si è prestato a cani e porci. Possibile che l’Europa non riesca a darsi una regola e una misura, senza dover ricorrere a un intervento esterno?

Ecco, allora, la proposta: istituire una camera di compensazione europea, sul modello della Clearing Union proposta da Keynes a Bretton Woods. La si può immaginare come un adattamento della nuova istituzione che è stata creata per far fronte alla crisi, la European Financial Stability Facility (Efsf), con due importanti accorgimenti che la renderebbero al tempo stesso più snella e più efficace. Innanzi tutto, a differenza della Efsf, una camera di compensazione non richiederebbe un accantonamento preventivo di fondi né la concessione di ingenti garanzie da parte dei paesi membri (con il rischio di vedersele rifiutare dai parlamenti, dopo la recente sentenza di Karlsruhe). Possiamo immaginarla come una banca, ma senza capitale, né depositi, né riserve. Semplicemente, ogni paese ha un conto presso la camera di compensazione e ogni conto ha un saldo iniziale pari a zero. Ad ogni paese è accordata la possibilità di “andare in rosso”, entro determinati limiti, finanziando in tal modo un deficit temporaneo dei conti con l’estero.

I paesi in surplus registrano, viceversa, un saldo positivo. I saldi complessivi della camera sono sempre pari a zero; per questo non ha bisogno di riserve. La seconda peculiarità di questa banca è che debitori e creditori sono trattati in maniera simmetrica: se i primi pagano un interesse sui propri saldi negativi, anche i secondi non li guadagnano, ma anzi pagano una commissione sui propri saldi positivi. Questa disposizione, apparentemente vessatoria, è in realtà perfettamente giustificata dal fatto che i creditori non hanno depositato niente nella banca, ma anzi beneficiano dei suoi servizi, alla stessa stregua dei debitori: infatti, se la camera di compensazione consente a questi di acquistare ciò che altrimenti non avrebbero potuto permettersi, allo stesso modo, in maniera del tutto speculare, consente a quelli di vendere ciò che altrimenti non avrebbe trovato mercato. Inoltre, gli oneri simmetrici costituiscono un incentivo per creditori e debitori a ristabilire l’equilibrio dei propri conti con l’estero. Una camera di compensazione così congegnata consentirebbe di finanziare gli squilibri interni all’Europa, senza dover ricorrere ai mercati finanziari internazionali, e, al tempo stesso, di assicurare che quegli squilibri siano limitati e temporanei.

Bello, si dirà, ma si può fare? Ebbene, sì. Anzi, lo si è già fatto. E proprio in Europa. Poco più di cinquant’anni fa. In una situazione simile. Con esiti straordinari. L’Europa usciva stremata dalla seconda guerra mondiale, aveva già divorato decine di miliardi di dollari di aiuti dagli Usa sotto il Piano Marshall, e ciononostante la ripresa stentava. Servivano ancora soldi? No, serviva soltanto uno strumento per consentire ai paesi europei di farsi credito a vicenda, in modo da consentire loro di ricominciare a investire, produrre, scambiare e consumare. Lo strumento fu trovato, nel 1950, nella forma di una camera di compensazione: l’Unione Europea dei Pagamenti. In otto anni, fece letteralmente miracoli: il miracolo economico italiano e quello tedesco, il raddoppio del commercio in Europa, la triplicazione di quello con gli Stati Uniti, la liberalizzazione degli scambi, l’inizio di uno spazio economico comune, integrato e bilanciato.

Allora come oggi, si veniva dal paradosso di non riuscire a far incontrare bisogni insoddisfatti con risorse inutilizzate, il paradosso di ogni crisi. Oggi come allora, l’incontro può essere favorito dall’istituzione di una camera di compensazione: una nuova Unione Europea dei Pagamenti potrebbe davvero contribuire a ridare credibilità e tempra a quel coraggioso progetto, politico ed economico, di prosperità e di pace, che muoveva allora i primi passi e che chiamiamo Europa.

*docente di Scenari economici internazionali alla Bocconi e Distinguished Visiting Fellow presso il Christ’s College di Cambridge
 

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