Papa sì, Milanese no: la Lega si scopre due pesi e due manette

Papa sì, Milanese no: la Lega si scopre due pesi e due manette

Una volta giustizialisti, una volta garantisti. Prima a favore, poi contro. Quando a luglio la Camera dei deputati ha votato per autorizzare l’arresto del deputato Pdl Alfonso Papa, la Lega Nord scelse le manette. Domani, quando la Giunta per le autorizzazioni di Montecitorio si pronuncerà sul destino dell’ex braccio destro di Tremonti, Marco Milanese, gli uomini di Umberto Bossi si opporranno alla custodia in carcere. Alla faccia della coerenza. 

I due rappresentanti del Carroccio in Giunta – i deputati Luca Paolini e Fulvio Follegot – hanno chiarito oggi la loro posizione. Al termine di una lunga audizione a Montecitorio – dove Milanese si è difeso lamentando il «massacro mediatico» subito negli ultimi tempi – i leghisti hanno fatto sapere che voteranno no. Una decisione maturata dopo aver letto attentamente le carte, giurano. «Ci sono dei passi – ha chiarito Paolini – che rivelano come l’accusatore cerchi chiaramente di “inguaiare” Milanese. Si desume un’acredine personale».

A questo punto l’esito del voto è scontato. Se non ci saranno sorprese dell’ultimo minuto, la Giunta non autorizzerà l’arresto del deputato Pdl. Una settimana dopo ad esprimersi sarà l’Aula della Camera. Stavolta, come spiega Paolini, ai deputati leghisti sarà lasciata libertà di coscienza. Ognuno deciderà autonomamente se condannare al carcere Milanese o meno. Una libertà condizionata, in realtà. Questo pomeriggio il leader Umberto Bossi ha dettato la linea ufficiale del partito: «A me – ha spiegato parlando con i giornalisti – non piace fare arrestare la gente». E se non è un avvertimento ai suoi, poco ci manca.

Insomma, Papa sì e Milanese no. Le opposizioni parlano di schizofrenia padana. «Siamo molto lontani dai tempi in cui la Lega si batteva per la legalità e la trasparenza delle istituzioni» accusa la capogruppo del Pd in Giunta, Marilena Samperi. Mentre in Transatlantico qualcuno sottolinea maliziosamente le differenze tra i due parlamentari indagati. Ricordando l’amicizia che lega il Senatùr al ministro Tremonti – non più tardi di ieri i due si sono incontrati a Monza – e sottolineando l’inevitabile danno di immagine per il ministro nel caso in cui il suo ex collaboratore fosse arrestato.

Ma dietro all’apparente cambio di strategia della Lega c’è anche dell’altro. Un dietrofront in parte giustificato dalla figura del ministro dell’Interno Roberto Maroni. Quando a luglio i leghisti condannarono Papa al carcere, i bene informati raccontarono che la decisione era stata presa dal titolare del Viminale, contro le indicazioni di Bossi. Una sorta di golpe. Una versione forse un po’ romanzata della dialettica interna al partito, che l’assenza del Senatur il giorno della votazione alla Camera contribuì ad alimentare. Stavolta, invece, Maroni non parla, preferisce non esporsi. Ha fatto un passo indietro. L’ennesimo negli ultimi mesi. Già, perché ogni volta che il ministro dell’Interno sembra a un passo dal raccogliere l’eredità del vecchio leader, arretra. Ogni volta che sembra pronto a conquistare la leadership del partito, scompare. Succede sempre così: quando lo scontro con Bossi sembra inevitabile, Maroni rientra nei ranghi.

Come quando a giugno il popolo leghista lo acclamò alla festa di Pontida. «Maroni presidente del Consiglio» recitava un enorme striscione. Bossi schiumava rabbia, raccontano. Buona parte del partito e della base avrebbe accettato di buon grado il passaggio di consegne tra i due. Ma il ministro del Viminale scelse il basso profilo. Confermando la sua fedeltà al leader. Poche settimane dopo, stessa storia. Maroni propose di sostituire il capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni – esponente del cerchio magico – con il suo fedelissimo Giacomo Stucchi. Il ministro aveva dalla sua la maggior parte dei parlamentari leghisti. Eppure quando Bossi lo bacchettò facendo saltare l’avvicendamento («e se Maroni non è soddisfatto peggio per lui»), preferì non replicare. Ancora una volta. 

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