Se ne sono andati

Se ne sono andati

TROY DAVIS

(9 Ottobre 1968 – 21 Settembre 2011)

Cittadino nero-americano, condannato a morte, e ammazzato con un’iniezione nel carcere di Jackson Georgia. Dopo 22 anni di prigione, e di “attesa”. Con molti ragionevoli dubbi sulla sua colpevolezza. Per salvarlo, non è intervenuto, questa volta, Barack Obama (lo aveva fatto per Humberto Leal Garcia jr.), ma l’ex presidente Jimmy Carter, l’arcivescovo anglicano del Sudafrica Desmond Tutu, Benedetto XVI, l’ex direttore dell’Fbi William S. Sessions, e 51 deputati del Congresso americano.

È stato ucciso alle 5 e 14 del 21 settembre, e Amnesty International ha parlato di «catastrofico fallimento del sistema giudiziario americano». I cui passaggi, in questo caso, possono essere riassunti in pochi punti decisivi.

Troy Davis era stato condannato per l’omicidio del poliziotto Mark Mc Fall, il 19 Agosto 1989, a Savannah, Georgia. Mc Fall era fuori servizio, ma, quel giorno prestava un servizio di sicurezza a un Burger King, un fast food: era intervenuto per difendere un senzatetto da un’aggressione nel parcheggio del ristorante, ed era stato colpito da due proiettili, alla faccia e al cuore. Davis era lì, ma l’ arma da fuoco non è mai stata ritrovata, così come sul luogo non c’erano macchie di sangue, o tracce di Dna di Davis stesso. Durante il processo, e fino all’ultimo, Troy Davis ha sempre detto di essere innocente, ma nove testimoni dell’accusa lo indicavano come colpevole. Successivamente, sette di loro ritrattavano la posizione portando due fatti: avevano deposto contro Davis dopo che la polizia li aveva minacciati, e uno di loro dichiarava di poter, probabilmente, indicare il vero omicida in un certo Sylvester “Redd” Coles. Che era stato “sentito” confessare – anche da altri testimoni che deponevano sotto giuramento – di avere, lui, colpito Mark Mc Fall. Inoltre, lo Stato della Georgia stabilisce che un imputato che non può permettersi un avvocato, rimanga sostanzialmente senza difesa: non contempla , cioè, l’assegnazione di un legale d’ufficio. È quello che è successo a Davis, e, come è stato scritto, «le sue opzioni sono state ridotte dall’entrata in vigore della legge del 1996, chiamata Antiterrorism and Effective Death Penalty Act, che limita severamente la possibilità di un condannato a morte di appellarsi al circuito delle corti federali americane».

Le svolte, più feroci e catastrofiche, del caso risalgono agli anni 2008-2009, quando Troy Davis era nel braccio della morte da quasi vent’anni. Due passaggi, tanto più indecenti (nei loro esiti) perché avevano dato qualche speranza: quando la Corte Suprema disponeva di rivedere il procedimento, investendo la Corte federale di Savannah, e quest’ultima – presieduta dal giudice William Moore – dopo aver ascoltato quelle testimonianze a sostanziale discarico, stabiliva che non bastavano a riaprire il processo. Penultimo atto, quando, quest’anno, la stessa Corte Suprema, a cui era stato fatto appello, nel marzo scorso, ha rifiutato la revisione del caso, senza dare alcuna motivazione. Ultimo passaggio, pochi giorni prima dell’esecuzione, inerente ai curiosi statuti della Georgia: in questo Stato, la possibilità di concedere la grazia non spetta al governatore, ma a una Commissione definita “per la Grazia e la Libertà sulla parola”. Con questo generico, e in teoria rassicurante, marchio quest’ultimo organismo ha semplicemente detto “no”, permettendo così l’omicidio di Troy Davis. Che, prima di morire, ha guardato i parenti di Mc Fall, dicendo: «Non ho ucciso personalmente vostro figlio, padre, fratello. Continuate a fare chiarezza su questo caso, per arrivare finalmente alla verità».

Amnesty International ha informato di altri due omicidi di Stato (ma potrebbero essere tutti richiamati “sacrifici umani”) nello stesso giorno della morte di Davis. In Cina, il cittadino pachistano Zahidi Husain Shah, accusato di spaccio di droga, veniva ucciso con un’iniezione letale (una volta tanto, Pechino – boss del debito americano – si adegua a Washington), mentre a Karaj, Iran, veniva impiccato in pubblico il cittadino Alireza Molla-Soltani. L’accusa era di aver accoltellato, durante una rissa “tra automobilisti” e in un momento di panico, il celebre atleta Ruhollah Dadashi. Alireza aveva 17 anni. Una minore età dappertutto e da sempre.

KURT SANDERLING

(19 Settembre 1912 – 17 Settembre 2011)

Direttore d’orchestra tedesco, nato ad Arys, Prussia Orientale. La città è oggi polacca, e si chiama Orysz. E’morto a Berlino. Gli sono mancati due giorni per compiere 99 anni.

Essendo tedesco, ebreo, e musicista, anche per lui gli anni Trenta in Germania hanno coinciso con l’esilio obbligato dal suo Paese. Che perdeva, volontariamente, alcune promesse, e una fila di pezzi migliori dell’interpretazione musicale. Se ne andava Sanderling, come i grandi interpreti di una, o due generazioni anteriori alla sua: Bruno Walter, Otto Klemperer, Erich Kleiber (non ebreo, ma antinazista da subito). Sarebbero rimasti, variamente acquiescenti, due altri giganti, come il maturo Wilhelm Furtwangler (già maestro, insieme a Kleiber, del giovane Sanderling) e il precoce Herbert von Karajan. La musica tedesca si privava anche di una specie di “adulte prodige”: a 19 anni – nel 1931 – Kurt era già maestro sostituto della Staatsoper di Berlino, la capitale dei suoi studi e dei suoi primi exploit. Con lui, sarebbero diventate musicalmente più ricche, Mosca, poi Leningrado, e in complesso l’Unione Sovietica. Un colpo non di scena, ma del caso, ha infatti portato quel giovane e dotatissimo “kapelmeister”, dove ben pochi emigravano, cioè in terra russa: lì aveva dei parenti, lì lo avevano invitato in vacanza, nel 1935. Era già stato espulso dall’orchestra berlinese, viveva lavorando per una Fondazione culturale ebraica, accettò l’invito, e non si mosse più dall’Urss. Per quasi trent’anni. Nel 1990, intervistato dal Los Angeles Times, avrebbe spiegato: «Quelli erano tempi di disperazione, le persone non avevano scelta. Accettavano ogni offerta, e nonostante io sapessi che in Unione Sovietica non c’era libertà, ho sentito che i russi mi stavano salvando. E lo hanno fatto».

Quel rifugio, e le sue tappe in diverse orchestre – della Radio a Mosca, di Kharkiv, di Novosibirsk, di Leningrado – gli avrebbero fatto incontrare e poi interpretare un grande della musica del Novecento: era Dmitri Shostakovic, sarebbero diventati amici. Era anche uno dei compositori più controllati dalla censura di Stalin, e Sanderling riusciva a leggerlo, durante le prove (soprattutto delle dieci sinfonie), nei suoi caratteri più liberi e diversificati. Diceva, agli orchestrali: «Qui c’è la disperazione, qui la tirannia, qui l’esercito in marcia, e tutti voi potete sentire immediatamente come Shostakovic vada alla fonte di tutte queste cose». In poche parole, attraverso la musica, c’era l’istantanea di quel Paese in quegli anni. E tutto questo – e un repertorio che comprendeva, in particolare, Beethoven, Brahms, Bruckner, Prokof’ev, Sibelius – veniva elaborato da un interprete che è stato definito “apollineo”. Il termine comincio’ a rivestire luminosamente Sanderling, quando lui decideva di ridiventare tedesco (orientale), nel 1960, un anno prima della costruzione del Muro. Tornava a Berlino, nella capitale dove era cresciuto, a ricreare l’Orchestra sinfonica. Dall’altra parte della città, ad Ovest, suonavano i Berliner Philarmoniker, cioè quel perfetto marchingegno orchestrale a cui Herbert von Karajan imprimeva un carattere “dionisiaco”. Anche questo è un aggettivo usato dalla critica, ed è quantomeno suggestivo pensare oggi che uno dei confronti della Guerra Fredda si sia svolto in due buche d’orchestra, fra Apollo e Dioniso. Fra due “dei sopra Berlino”.

Kurt Sanderling ha vissuto quasi tutto il secolo, lunghissimo, riuscendo a perfezionare il meglio di se stesso, non blindato, in un blocco geopolitico blindato per definizione. Avendo il privilegio di essere un musicista (bravissimo), ha girato il mondo: fra i “Western classical listeners” – così ha scritto il New York Times – delle orchestre di Vienna, Monaco, Amsterdam, Madrid, Los Angeles, Londra. E ha anche lasciato (un po’ come la famiglia Bach) una discendenza di musicisti: due figli – Stefan e Thomas – direttori d’orchestra, e un terzo, Michael, violoncellista.

Immagine di questa settimana: Fotografia senza titolo scattata il 29 aprile 2009 da green_is_in caricata su Flickr.

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