James Hillman
(12 aprile 1926 – 27 ottobre 2011)
Americano di Atlantic City (New Jersey), pensatore e saggista fra i più versatili e di successo. Ha messo insieme la psicanalisi junghiana di base, la filosofia, e una forma originale di scrittura letteraria. Un corpo di 24 libri, e una divulgazione mondiale del suo pensiero, a cui si dedicava, attraverso i media e con un personale carisma. È morto di cancro a Thompson, Connecticut, dove viveva. Rifiutando, all’ultimo, ogni genere di cura prolungante o accanita. Aveva 85 anni e sei mesi.
Era di Atlantic City. E l’Atlantic City più celebre, quella dell’omonimo film capolavoro di Louis Malle (del 1980), è anche un luogo malato ma con una vitalità da ultimi giorni, con persone depresse sul passato che vanno avanti provando a fare i croupier, o rubando, o truffando, o innamorandosi in modo spiantato (anche psicologicamente) di una ragazza. La malavita di quella città è diventata media, nostalgica, crepuscolare. Soprattutto parla con se stessa, come in una specie di terapia della mezza età, tornando puntualmente al suo archetipo: il bel tempo andato quando si poteva lavorare ai tavoli da gioco, o più in generale nel crimine, insieme ad Al Capone e ad altre celebrità di quel peso. Quasi degli dei. Carl Gustav Jung avrebbe potuto commentare che «gli dei sono diventati le nostre malattie».
James Hillman, che all’Istituto Jung di Zurigo si era formato come terapeuta, avrebbe potuto aggiungere un’osservazione, precisa e disperata (la si legge in uno dei suoi libri più conosciuti, Il mito della psicanalisi): «Lavoriamo costantemente sulle nostre relazioni, i nostri sentimenti, i nostri pensieri, ma guardiamo i risultati. Un mondo e un periodo di incredibile declino. Perché le persone intelligenti e sensibili sono così passive? Perché sono in terapia!».
Diversamente dalla piccola folla di Atlantic City, Hillman ha teorizzato il sorpasso della “terapia” (intesa in senso clinico, e in senso lato) per provare a trasformare una possibile “malavita” in una catena di riconoscenze, anche mitologiche, utili a fare chiarezza, giorno per giorno. Riconoscere che un mito di guarigione contiene anche una distruzione: è il mito di Apollo, entrato dentro la pratica clinica – e dentro la psicoterapia – essendo da sempre il cuore della nostra civiltà. Riconoscere che l’interesse troppo concentrato sui nostri «stati di malessere» ci porta lontano dalla realtà sociale. Riconoscere che il disimpegno rappresenta una perdita per la società, ma anche l’amplificazione di una sofferenza, o l’alienazione, per il disimpegnato. Riconoscere la ricchezza della parte “maledetta” della nostra anima, riconciliandola alla “natura”.
Riconoscere, cioè, la grandezza del dio Pan e del suo mito: già bandito da duemila anni di cristianesimo, reso demoniaco, deformato. La sua vendetta è stata sofisticata: è diventato patologie, angosce, panico, incubi. Riaccoglierlo vuol dire riesplorare, una parte ineliminabile della nostra “Grecia interiore”. Riconoscere che la nostra anima resta in costante dialogo con la morte. In una sorta di “impegno” che i filosofi e i credenti chiamano trascendenza e immortalità dell’anima. Sotto questo aspetto, ogni morte è una “morte volontaria”, e il suicidio non è altro che una delle forme scelte da una volontà. Riconoscere che quando nasciamo, siamo già “qualcuno” e “un progetto”. È il nostro “demone”, o “spirito”, che ci porta a spiegare, o a provare a farlo, il presente, a partire da quello che ci aspetta, dall’«obiettivo che perseguiamo nella nostra vita».
In questa prospettiva, il passato (quello che tormenta il gruppo di Atlantic City) è marginale. Riconoscere, verso la fine, quanto «la nostra più alta intenzione sia di renderci irripetibili. Perché non c’è un altro io, ma ciascuno di noi – la nostra anima, non la nostra vita – vale l’Universo intero». Riconoscerci, in estremo, «nella nostra vecchiaia, dove la nostra vera natura si rivela» (qui è notevole che Hillman non tiri in ballo l’“esperienza”, e il suo mito, se esiste). Per cui «ai nostri giorni, si valorizzano solo gli anziani, o i vecchi, che hanno l’aria giovane, e che si comportano conseguentemente. Ci si dimentica che l’età, e l’antichità sono archetipi che danno valore e lustro alle cose che ci sono più care».
Tutto, qui citato, in sintesi quasi disperata. E con un’immagine: da Atlantic City è venuto fuori, rigenerato, l’ultimo filosofo del II secolo d.C.
Antonio Cassese
(31 marzo 1937 – 22 ottobre 2011)
Giurista italiano, e di primo livello nel mondo: è stato anche ricordato come «l’architetto principe della moderna giustizia internazionale criminale». Avrebbe compiuto 75 anni l’anno prossimo. Originario di Atripalda, nella provincia di Avellino, è morto di cancro, a Firenze, dove viveva con sua moglie Sylvia.
Cassese era nato in un periodo dove il peggio del mondo (a Roma, Berlino, Tokyo) stava mettendo a punto, in armi, una serpentina di crimini internazionali: nel 1937, l’Etiopia era già stata massacrata con i gas e annessa al regno italo-fascista, la capitale cinese – Nanchino – subiva lo «stupro di massa» dell’esercito imperiale giapponese, mentre Vienna e Praga, e i rispettivi Paesi e popoli, sarebbero stati presto ingoiati dalle truppe naziste. Tutto permesso, o blandamente sanzionato, a Londra, Parigi, Ginevra (sede della Società delle Nazioni): erano già crimini «di guerra, contro la pace, e contro l’umanità», ma i loro titoli rovinosi avrebbero avuto, per la prima volta, rilevanza giuridica nelle aule dei processi di Norimberga (1945-46), e di Tokyo (1946-48). Dopo la Shoah e altri stermini razzisti, le invasioni di Paesi neutrali, la tortura e l’annientamento di civili e prigionieri di guerra, la prigionia-lavoro schiavistico, eccetera. Insomma, una serie di prototipi criminali – dilagati in guerra, ma già pianificati prima, in pace – che venivano finalmente giudicati di fronte al mondo per quello che erano, e perché, un po’ illusoriamente, non si ripetessero.
Era una nuova idea, attiva, di giustizia internazionale criminale e, circa cinquant’anni dopo quei processi, Cassese la aggiornava – quasi ricreandola – con questi principi: i crimini di guerra andavano giudicati e puniti non solo quando venivano commessi in un conflitto fra Stati, ma anche quando erano interni a un solo Paese. In sostanza, in una guerra civile, o quando un regime, o un governo, scatenavano la propria repressione contro qualunque oppositore. Diventando, il più delle volte, un governo, o anche una persona sola, “criminale contro l’umanità”. In aggiunta, consequenziale, veniva stabilito che «massacri, torture, ed altre atrocità» commessi da «governi o gruppi di potere» anche in assenza di conflitto interno, andavano egualmente puniti come crimini contro l’umanità.
Era l’istantanea del quadro mortifero ex jugoslavo, e quando, nel 1993, l’Onu metteva in piedi, all’Aja, il Tribunale internazionale per giudicare i crimini vari commessi durante il disfacimento di quel Paese (già federale), ne affidava la presidenza ad Antonio Cassese. Un “giusto”, in ogni senso, per far sentire di nuovo in un’aula togata – con tanto di dibattimento, testimonianze, e documenti – che il diritto di giudicare e punire quei delitti era un patrimonio dell’umanità. Oltre che un dovere giuridico e morale. Cassese aveva tutto per blasonare quel risveglio della giustizia internazionale: competenze, carattere, e una marcia creatrice in più. «Visionaria», come ha ricordato il giudice americano di quello stesso Tribunale, Theodor Meron. Incrociata a «un’energia molto alla mano che scavalcava inerzie processuali, precauzioni, e resistenze», alla «convinzione che fallire era impensabile in quel lavoro messo in piedi per la giustizia e per le vittime», e a «un’erudizione giuridica sconfinata». Aveva studiato Legge a Pisa, aveva insegnato a Firenze e a Oxford, aveva analizzato e scritto, in un saggio particolare, sul processo di Tokyo, e fondato il Journal of International Criminal Justice (sempre a Oxford). Nel 2004 avrebbe presieduto la Commissione d’inchiesta creata dalle Nazioni Unite per indagare sui crimini commessi in Darfur (prologo della sentenza della Corte Internazionale dell’Aja che ha stabilito l’arresto del presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashir).
Due settimane prima di morire, per la malattia aveva dovuto abbandonare la guida del Tribunale Speciale per il Libano (messo in piedi sempre in ambito Onu), cioè di una corte che dovrebbe giudicare gli assassini dell’ex premier Rafīq al-Ḥarīrī e delle altre 22 persone morte in quell’attentato a Beirut, nel 2005.
All’Aja (una delle città libere dove era vissuto Baruch Spinoza, e che oggi è diventata la «capitale della giustizia internazionale», quasi scostando ai lati il ruolo di capitale amministrativa dei Paesi Bassi) Antonio Cassese girava allegramente in bicicletta, e nel suo ufficio teneva appesa questa considerazione di Bertolt Brecht: «Per natura sono un uomo difficile da controllare. Respingo quasi con oltraggio qualsiasi autorità che non si basi sul mio rispetto. E guardo alle leggi solo come proposte, provvisorie e modificabili, per regolare il corso dei fatti umani».
Uno dei più affettuosi, e veri, ricordi di Antonio Cassese, è stato fatto dall’americana Patricia M. Wald, che ha fatto parte come giudice d’appello del Tribunale per i crimini nella ex Jugoslavia: «Ci sono momenti nella Storia, dove una sola persona fa la differenza. Lui è stato una di quelle persone». A quella differenza si possono oggi richiamare un buon numero di scampati, in memoria dei loro massacrati: in Ruanda, a Srebrenica, in Libia. E, possibilmente (in un giorno visionario), anche a Damasco, Pechino, Teheran, e altri posti.