Almond Richard Turner
(28 luglio 1932 – 9 settembre 2011)
Americano di New Bedford, Massachusetts, storico dell’arte italiana, soprattutto del Rinascimento. Louis, suo padre, era un fisico particolarmente esperto nel perfezionare i radar: per questo era stato molto utile durante la Seconda guerra mondiale. Leonardo da Vinci, inventivo per definizione anche nella fisica, e nell’ingegneria meccanica, è stato il soggetto centrale dei suoi studi.
Leonardo è stato anche noto per la sua reticenza a lasciare note biografiche su se stesso: i suoi appunti – una sublime raccolta di Scritti – è stata pubblicata per la prima volta solo nell’Ottocento, e quando li si legge, anche non cogliendoli immediatamente, ci si trova di fronte a una successione di immense opere del pensiero. Per questo suo carattere (un’arte consapevole e inconscia), Leonardo è stato anche guardato, e letto, per quasi mezzo millennio, come lo schizzo di un massimo enigma, con soluzioni mai definitive: da Vasari a Freud, ognuno ha interpretato, o dato vita, a una propria decifrazione di quel genio. Turner, detto Dick, è andato oltre e ha parlato di «invenzione», un termine consono al tema e al soggetto. Il suo Inventing Leonardo è un libro mitobiografico che incrocia cinquecento anni di visioni leonardesche (degli altri su di lui) con i vuoti d’informazione, e il fatto di trattare, comunque, l’artista più studiato e più elusivo della Storia. O il più celebre, in ogni direzione.
«C’è un Leonardo del 1550, e uno del 1800, e poi del 1850: ogni investigatore di Leonardo lo ha ridisegnato secondo il proprio carattere e le esigenze del proprio tempo. Biografi, critici, artisti, interpreti di vario livello, hanno creato dei multipli seguendo l’idea che ognuno aveva di quella forza creatrice, e della creazione artistica, in generale». Turner ha sintetizzato così il suo lavoro, lasciando intendere come in Leonardo resti comunque uno spazio aperto e, insieme, indecifrabile. E, qui, tanto per dare un esempio alla fonte, vale la pena di leggere uno dei suoi pensieri: «Muovesi l’amato per la cos’amata, come il senso colla sensibile, e con seco s’unisce, e fassi una cosa medesima. L’opera è la prima cosa che nasce dall’unione. Se la cosa amata è vile, l’amante si fa vile. Quando la cosa unita è conveniente al suo unitore, lì seguita dilettazione e piacere e soddisfazione. Quando l’amante è giunto all’amato, lì si riposa; quando il peso è posato lì si riposa». Oppure, in finale, e molto diretto: «Chi disputa allegando l’autorità, non adopra lo ingegno, ma più tosto la memoria».
Richard Hamilton
(24 febbraio 1922 – 13 settembre 2011)
Di Londra, pittore, incisore, scultore, autore di affiche e di collage. Aveva 89 anni, è morto a Oxford. Con le sue idee, e come le ha rappresentate, è nata la Pop art. Negli anni Cinquanta.
È nata, in quegli anni, in Inghilterra, anche un’espressione, diventata, da sola, un’opera d’arte di massa, un comportamento sociale, con ambizioni di rottura, o di stupore, o di informazione su come era fatto il mondo: Pop art, appunto. Dove il primo termine viene ormai usato, ogni tanto, per presentare qualcosa, o presentarsi, pop senza esserlo. Il tutto, involontariamente, una distrazione pop. Quell’insieme così immediato da pronunciare, segue, in fondo, un destino simile a quello dell’aggettivo barocco. Qualcosa di definito, che diventa poi un termine-scorciatoia per centrare in quattro e quattr’otto, un carattere, o un sovraccarico di forme. Il bello sta, forse, nelle variazioni barocche che la Pop art ha spesso assunto, nelle sue metamorfosi. L’attitudine, non mediata, di Richard Hamilton era diversa, e soprattutto inedita, a due livelli. Primo: «Una forma di commento sardonico alla nostra società». Secondo, più originale e dentro alle cose: «Vorrei che si pensasse alle mie intenzioni come a una ricerca di ciò che è epico negli oggetti e nei comportamenti di tutti i giorni».
Mica male parlare di epica quando l’opera prima, o pioniera “pop” di Hamilton – un collage del 1956 – si è chiamata Just What Is It That Makes Today’s Homes So Different, So Appealing?. Ovvero, la visione di un body builder nudo insieme a una donna nuda in un salotto carico di oggetti ed emblemi di un dopoguerra American Style. L’opera faceva la sua parte in una mostra allestita alla Whitechapel Gallery di Londra, e il titolo era This is Tomorrow. Questo è il domani, avevano ragione Richard e gli artisti dell’Indipendent Group che avevano lanciato quell’expo, e una provocazione in fondo profetica. Si stava diventando tutti pop (anche chi credeva di esserne molto lontano), perché pop erano già la pubblicità, la cultura di massa, le nuove tecnologie. E più che pop erano le critiche a tutto questo insieme. In particolare ai consumi ad oltranza. Lui, Hamilton, aveva avuto comunque una solida formazione: corsi di pittura alla Royal Academy, perfezionamento alla Slade School of Fine Art, quadri cosiddetti astratti come pratica iniziale, e poi un ritorno stabile al cosiddetto “figurativo”. Fra le sue opere successive, è ormai storica Hommage à Chrysler Corp. e, più che pop, la copertina del White Album dei Beatles.
Da ricordare anche la fila di aggettivi da lui usati per centrare l’essenza della cultura di massa: «Popular, transient, expendable, low-cost, mass-produced, young, witty, sexy, gimmicky, glamorous and big business». Se si prendono uno per uno questi termini, e li si porta al quadrato, o al cubo, sull’oggi, si può avere un’idea su come siano diventati “barocchi” il mondo pop, e le sue arti. Nella peggiore delle visioni (come quella di Marc Fumaroli) «un’eterna ripetizione, come la dittatura di Mao Tse-Tung» (scritto alla vecchia, e popolare, maniera).
Otakar Vávra
(28 febbraio 1911 – 15 settembre 2011)
Regista di cinema ceco, nato nella cittadina di Hradec Králové. Aveva cento anni, è morto a Praga.
Un secolo e più, una cinquantina di film realizzati a partire dal 1936, e il merito, molto ricordato, di «avere trasmesso l’arte del cinema a generazioni di studenti cechi e stranieri». I più celebri, Miloš Forman, ed Emir Kusturica. Il suo film più poetico, Romance pro křídlovku, Racconto per cornetta (degli anni Sessanta), era stato inizialmente tollerato dal regime, ma poi bloccato nella distribuzione. Un’altra opera, forse la più nota, è Martello delle streghe, del 1969: il titolo si riferisce ai processi contro le donne accusate di stregoneria nella Boemia del XVII secolo (in italiano fu tradotto Una vergine per l’inquisitore). Evidente il riferimento politico: i processi di Praga nei primi anni Cinquanta. Negli anni Sessanta, alla Scuola superiore di cinema della capitale, si formava una nouvelle vague di registi cecoslovacchi: oltre a Forman, Jiří Menzel e Věra Chytilová. Oltre al serbo-bosniaco Kusturica, che lì studiava dal 1970. Dopo la caduta del regime, diversi critici hanno sottolineato come molti film di Vávra fossero stati prudenti, o addirittura «in linea con le direttive del partito». Curioso (o solo realista a posteriori), il commento-necrologio dell’Agenzia di stampa ufficiale ceca Ctk: «L’arte del compromesso fa parte delle qualità fondamentali di ogni regista».
Il quadro di questa settimana: «The Girl Who Finds You Here», dell’artista sino-americano Lu Cong, olio su tavola, 2009