Dal 2008 ad oggi il drappello di deputati siciliani che ha scaricato Berlusconi è cresciuto in maniera esponenziale. D’altronde la crisi del centrodestra ha anche origini siciliane. La spaccatura fra berlusconiani e finiani avviene prima in Sicilia, e poi a Roma. E quando nell’aprile del 2010 all’Auditorium della Conciliazione si consuma l’ormai famoso «Che fai, mi cacci?», Fini e Berlusconi stavano proprio discutendo del “caso Sicilia”. Nel 2008 Raffaele Lombardo viene eletto governatore dell’isola con i voti del Pdl (che prese più del 40%), dell’Udc e dell’Mpa. E oggi lo stesso Lombardo è sostenuto dall’asse TerzoPolo-Pd, e il Pdl è confinato all’opposizione. In sostanza, potremmo dire, che la Sicilia anticipa gli scenari politici. E non è un caso che sia considerata da sempre una regione “laboratorio”.
E nelle ultime ore i segnali che giungono dal “laboratorio Sicilia” continuano ad non essere affatto confortanti per Berlusconi. Basti pensare alle ultime dichiarazioni del leader di Forza del Sud, Gianfranco Micciché. «Voteremo il rendiconto, perché non dovremmo farlo», ma «in Sicilia alle prossime amministrative andremo da soli. Grande Sud avrà propri candidati, anche a Palermo». Un comunicato lampo diffuso nella notte tra lunedì e martedì che inviava più di un segnale al Cav e saggiava ciò che di lì a poco sarebbe successo.
Martedì i sette deputati di Forza del Sud, con l’eccezione del barone di Scuderi Francesco Stagno D’Alcontres che «aveva chiesto soldi per la sua Giampieri» ma non ha ancora ricevuto alcuna risposta, hanno votato lealmente il rendiconto. Ma concluso il voto, si è aperta un’altra partita, e i sudisti non hanno alcuna intenzione di giocarla seguendo il diktat del presidente del Consiglio che chiama al voto. D’altronde, se si votasse a fine gennaio o tutt’al più a febbraio, chi tutelerebbe nella formazione delle liste gli uomini di Micciché? Ad oggi sono sei alla Camera e quattro al Senato e Berlusconi potrebbe pure accontentarli e piazzarli “in posizione strategica” nelle liste. Ma Micciché non fa più parte del Pdl e da circa un anno rivendica una certa autonomia, avendo fondato un altro partito. Ergo Berlusconi, qualora accontentasse i “miccicheani”, come si giustificherebbe con gli scajoliani, gli alfaniani, gli uomini di Alemanno, l’area formigoniana, e con tutti i big del partito che rivendicherebbero posti nelle liste?
A ciò bisogna aggiungere un altro elemento non trascurabile: il rapporto fra Gianfranco Micciché e l’attuale segretario politico del Pdl Angelino Alfano. Fra i due ormai da tempo non scorre buon sangue, e la fuga di Micciché dal Pdl è legata anche ai dissidi avuti con Alfano. E, se come sembra, il segretario politico del Pdl avrà un ruolo centrale nella formazione delle liste, di certo non caldeggerà Micciché e i suoi uomini. Oggi Micciché ha voluto aggiungere un altro tassello al suo smarcamento dal Berlusconi. E lo ha fatto diffondendo un comunicato, intorno alle tre di pomeriggio, che ricompone il puzzle su quanto detto sopra: «Andare al voto adesso significa rendere più instabile e meno credibile il nostro Paese. Di fronte agli attacchi dei mercati finanziari bisogna reagire con fermezza e realizzare immediatamente le riforme che l’Europa partendo proprio da quelle che riguardano il Sud».
E sempre dalla Sicilia arriva un’altra doccia fredda per Berlusconi. A confermare il suo addio dal Pdl è stato oggi il senatore Carlo Vizzini, presidente della Commissione Affari Costituzionali, che durante una conferenza stampa ha annunciato il suo passaggio al Psi di Riccardo Nencini: «Ho incontrato il gruppo dirigente del Pdl che mi ha dato tutte le garanzie personali per quanto riguarda le prossime elezioni. Sono sempre stato il secondo il terzo di una lista che elegge 13 senato. Ma ora il problema è politico: il Pdl, su temi come il testamento biologico e l’omofobia, è diventato un partito confessionale».