Allen Mandelbaum
(14 maggio 1926 – 27 ottobre 2011)
Traduttore americano della Divina Commedia. Negli anni Ottanta uscivano le tre cantiche, in tre volumi, pubblicate dalla University of California Press: l’inglese dantesco di Mandelbaum era «fluid and sensitive». Quella versione è considerata massima, tuttora. E lui è stato ricordato come «one of the world’s premier translators of Italian and classical poetry»: da Ungaretti, Quasimodo e Montale, ad alcune fonti primarie, cioè all’Eneide (tradotta nel 1973, e premiata con il National Book Award), all’Odissea (nel 1990), alle Metamorfosi (nel 1993). Era di Albany, New York. È morto a 85 anni passati nella sua casa di Winston-Salem, North Carolina.
Un interprete di Dante e dei suoi universi si sarebbe formato, nel dopoguerra, in una Yeshiva di Manhattan: cioè in una scuola superiore ebraica, dove la fede abbracciata all’intelletto si perfeziona nello studio della Torah e del suo universo. È stata la prima tappa speculativa di Allen da ragazzo, dai 13 anni all’adolescenza inoltrata. Dopo il suo bar-mitzvà, e quando i Mandelbaum erano già stabili a New York, dopo qualche passaggio in diverse città di quello stesso Stato. Con quella base del pensiero (se ci si riflette, non eccentrica rispetto alla Commedia), si può apprezzare subito la metamorfosi in inglese – più che complessa – di un frammento di Paradiso, dove Dante cita, alla fine, l’unione della «nostra natura e Dio». Siamo al Canto II, 31-42: «S’io ero corpo, e qui non si concepe / Com’una dimension altra patio / Ch’esser convien se corpo in corpo repe, / Accender ne dovria più il disio / Di veder quella Essenza in che si vede / Come nostra natura e Dio s’unio». Traduce Mandelbaum: «If I was body (and on earth we can not see how things material can share / one space-the case, when body enters body), then should the longing be still / more inflamed / to see that Essence in wich we discern / how God and human nature were made one».
Questa traduzione (in esteso, tutta la Commedia di Mandelbaum) sarebbe stata anche derisa da una corrente di dantisti americani: essenzialmente per il cambio di metrica. E la risposta all’attacco, da parte di altri esperti massimi (come Irma Brandeis), sarebbe arrivata con una sottolineatura ultimativa di questo tipo: «Mandelbaum è capace di trasmetterci i significati di Dante con una dizione appropriata». Fluida e sensibile, e, per quanto possibile, anche precisa, com’era stata la scelta universitaria adulta del futuro traduttore: un master alla Columbia con un dottorato in Lingua inglese e letterature comparate. Una successiva ammissione fra la Society of Fellows di Harvard avrebbe preceduto il classico “viaggio in Italia” – rilucidato anche dal cinema e dalla bellezza di Ingrid Bergman, un po’ smarrita nella Penisola – e soprattutto 15 anni stabili da noi, a imparare la lingua parlata, per poter passare a quella poetica, e al suo archetipo imprescindibile, cioè a Dante. Che Mandelbaum avrebbe anche commentato, cantica per cantica, in tre volumi pubblicati fra il 1988 (l’Inferno), e il 2008 (il Purgatorio). Il Paradiso era stato affrontato per secondo. Anche nel commento, spiccavano, e brillano, le stesse qualità, ampiamente ricordate: «La trasmissione dell’epica dantesca, e la resa dei significati originari, più che una approssimativa reinterpretazione poetica».
Paul Brusson
(29 aprile 1921 – 26 ottobre 2011)
Cittadino belga, di Ougrée, regione delle Ardenne, aveva 90 anni, e durante la guerra i nazisti lo avevano classificato come NN. Significava Nacht und Nebel – notte e nebbia – e indicava i detenuti politici giudicati pericolosi e condannati a morte.
Il suo impegno e la sua tenuta nella Resistenza belga lo trasmettono come un pezzo di memoria irresistibile. Più che attuale e anche in avanti: perché Paul Brusson, negli ultimi 60 anni, ha attivamente spiegato come quella lotta sia stata la base delle successive “unità europee”, ma anche come l’antifascismo vada vissuto come una fonte d’energia rinnovabile. Contro tutti i derivati “post”: nazionalisti, micropatriottici, razzisti, autoritari (quello che, in pratica, succede in Ungheria, Lombardo-Veneto, nelle Fiandre, eccetera). Quattro generazioni, e oltre, di europei sono avvertite dalla vita di uno come lui. Nel Belgio occupato, entrava nel movimento resistenziale Solidarité, finché la Gestapo non lo arrestava il 28 aprile 1942. Stava per compiere 21 anni, era un socialista vallone, con un prezioso diploma all’Ecole des chaussure di Liegi (un istituto d’alto artigianato di calzoleria). Avrebbe passato tre anni in quattro campi d’internamento-sterminio nazisti: Mauthausen, Gusen, Natzweiler-Struthof, Dachau. Un “pericoloso” che doveva essere eliminato senza lasciar tracce, ma che invece si salvava, e veniva liberato dagli americani nel 1945. Diventando tante cose insieme. Un giovane ex combattente, ed ex sopravvissuto, che nel dopoguerra avrebbe scelto un mestiere quasi militare, o di sicurezza collettiva: una carriera nella polizia di Liegi, conclusa con la carica di Commissario in capo della città. Indefettibilmente socialista, ed europeista.
Un testimone abbastanza eccezionale dei passati orrori: quattro campi tedeschi, e il fatto di esserne uscito vivo, erano un lasciapassare per racconti particolareggiati e verità tanto orrende quanto innegabili. Uno storico dal vivo, e in loco, e che non si distraeva: dal 1958 in avanti, Paul Brusson è stato uno dei primi ex perseguitati a organizzare i “viaggi nella memoria”, a portare cittadini di ogni Paese nei luoghi dell’annientamento dove lui era sopravvissuto, immaginando, ogni giorno, di non farcela: Dachau, Natzweiler, Mauthausen. E, dato che era un internazionalista europeo, per mostrare, in quei campi europei, quanto fosse politicamente necessario stare in costante guardia: del presente d’Europa, oltre che della sua memoria.
Brusson era, alla fine, anche un cittadino socialista del regno che contiene la capitale “dell’Unione”. Un Paese minacciato, ogni mese, nella sua tenuta triglotta e federale. Minacciato dal nazionalismo fiammingo, uno dei peggiori, o più vecchio stile, o più aggiornati, del continente. “Postnazista”, avrebbe potuto dire Paul Brusson, mettendo in guardia i suoi concittadini europei.
Il quadro di questa settimana è del pittore ungherese Gyula Konkoly.