“Too big to fail”, il crack di Lehman in un film che parla al presente

“Too big to fail”, il crack di Lehman in un film che parla al presente

Too big to Fail

C’è chi dice che la storia del miliardario giapponese Ryoei Saito sepolto insieme al Ritratto del Dottor Gachet di Van Gogh sia solo una montatura per motivi fiscali. Saito è morto ma il dipinto da lui pagato 82 milioni e mezzo di dollari sarebbe ancora intatto, al sicuro in qualche caveau. Del resto un Van Gogh qualsiasi sarebbe ingiusto che finisse bruciato per i capricci di un miliardario. Troppo eccelso per scomparire.

La pensava così anche il Ceo della Lehman Brothers, Dick Fuld, quando nell’estate del 2008 non voleva cedere all’emergenza, ritenendo inammissibile il crack alle porte: «Lo scorso febbraio eravamo a 66 dollari per azione. Lehmans Brothers non è Bear Stearns. Abbiamo un grande giro d’affari, il mercato, non svenderò questa società». Fuld, il manager da 89 milioni di dollari di stipendio, aveva le sue ragioni perché i debiti per 613 miliardi di dollari erano proporzionati all’importanza della Lehman, un’azienda che era cresciuta in parallelo alla storia degli Stati Uniti, insomma una realtà troppo grande per fallire. “Too big to fail” è anche il titolo del film di Curtis Hanson (prodotto dall’HBO) che SkyCinema1 manderà in onda oggi e che è stato presentato in sordina al Festival del Cinema di Roma (zero conferenze, né ospiti né interviste).

Alle spalle del film che ricostruisce il tentativo di impedire il crack della Lehman, c’è la monumentale inchiesta di 650 pagine di Andrew Ross Sorkin, giornalista del New York Times, pubblicata in Italia da De Agostini, un dossier di 500 interviste sul perchè si arrivò alla disfatta bancaria. L’anno scorso al Festival, sempre fuori concorso, un altro Sorkin, stavolta Aaron, aveva raccontato l’inaspettato successo economico di Facebook con “The social network” di David Finch. Al contrario, in “Too big to fail” si scende da subito in un dramma finanziario senza redenzione e pagato con la crisi più dura degli ultimi anni. «Solo con il crollo della banca di Dick Fuld, i banker hanno capito che qualcosa di maledettamente distorto c’era nel proprio business» ha scritto nel libro Sorkin. Il regista Hanson ha spiegato che la scelta del crack Lehman come copione del film è arrivata perchè quel crollo «è stato il periodo più intenso e drammatico della crisi, con un inizio e una fine ben definiti, dal crack di Lehman fino al varo del TARP, il maxipiano anticrisi da 700 miliardi di dollari varato dall’amministrazione di George W. Bush e portato avanti dal governo di Barack Obama». 

Difficile condensare in meno di due ore di spettacolo tutte le dinamiche dell’affare Lehman e delle vicende che lo hanno preceduto e seguito. Forse anche per questo, salvo inserti di notiziari giornalistici e bollettini d’analisti, “Too big to fail” è un thriller chiuso dentro le stanze del potere. Il tempo corre e il baratro s’avvicina. Non c’è neanche una inquadratura in cui compare una banconota, o dei centesimi per un caffè, il denaro esiste perchè si volatilizza. Il destino di risparmi e risparmiatori, di debiti e creditori viene deciso a tavolino, mentre di sotto la gente continua a fare shopping e non ci sono manifestanti in piazza. “Too big to fail” è un film di facce perchè la dura realtà costringe a guardarsi negli occhi. “Mediamente l’uomo della strada non sa che aspetto abbiano Jamie Dimon o John Mack” racconta il regista, che per questo motivo ha voluto mettere insieme un grande cast per dare un volto ai giganti della finanza alle prese con dati asciutti, numeri, tabelle, leggi.

James Wood che impersona l’ostinato Fuld (il quale chiamato a testimoniare dal Parlamento americano rispose più volte: «No, non ho ingannato nessuno, le mie affermazioni erano basate sulle informazioni di cui disponevo») non è il solo a portare la croce dell’impresa disperata. Il personaggio intorno a cui ruota il film è Henry “Hank” Paulson, segretario del Tesoro ed ex presidente e ad di Goldman Sachs, intepretato da uno straordinario William Hurt. L’ex divo degli anni Ottanta non ha smesso i panni dell’uomo tormentato (impressionante la somiglianza con Steve Jobs). Paul Giamatti è il Presidente della Federal Reserve Ben Bernanke; Billy Crudup è Timothy Geithner, Presidente della New York Federal Reserve Bank; Bill Pullman dà il volto al Presidente e Amministratore Delegato di JP Morgan Chase Jamie Dimon. Tony Shalhoub è John Mack, Ceo di Morgan Stanley.

A William Hurt spetta il compito di trovare una via d’uscita, sanare, cucire, tappare. Non basterà, perchè il livello di default è così alto che il fallimento porta appresso di tutto. L’epilogo è quello noto: Lehman Brothers in bancarotta, Merrill Lynch fagocitata da Bank of America, e Aig aggrappata ai prestiti-ponte. Non basterà neanche abdicare al proprio ruolo e credo, portando il governo ad acquistare partecipazioni azionarie nelle banche per ridare fiducia al mercato e frenare la fuga dei correntisti.

«Henry Paulson è stato accusato di essere tra coloro che hanno creato le circostanze che hanno portato alla colossale crisi, ma Paulson cerca comunque di fare del suo meglio per trovare una soluzione- racconta Hanson – E lo fa anche se le misure prese dal governo va contro tutto ciò in cui egli ha fermamente creduto durante la sua carriera finanziaria». Però non c’è un eroe tra questi giganti nati per non per fallire. Neanche Hank lo è, e infatti rivela sconsolato: «Perché nessuno ha regolamentato l’operato delle grandi banche d’affari? Perché nessuno lo voleva: stavano guadagnandoci troppi soldi». E a chi si lamenta per l’arrivo di un’altra giornata di contrattazioni sul destino della Lehman, uno dei banchieri risponde laconico: «Non siamo mica a Omaha Beach».
 

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