La parola, appartenente alla lingua inglese, indica originariamente “una mancanza, un difetto”. Si è diffusa nel linguaggio informatico e tecnologico con una diversa accezione, indicando qualcosa che avviene “in modo automatico, di consuetudine”. Per Treccani è una “condizione operativa automaticamente selezionata da un programma o da un sistema informatico in mancanza di una istruzione specifica da parte dell’operatore”.
Oggi “default” è il termine che più spaventa gli operatori finanziari. Nei fatti si tratta dell’incapacità tecnica di un soggetto a onorare le clausole contrattuali del suo finanziamento. In altre parole, il fallimento. Nel caso di uno Stato, l’esempio più eclatante degli ultimi anni è quello dell’Argentina intorno al 2000. Il Paese coinvolto in un default sovrano, cioè nell’incapacità oggettiva di rimborsare gli obbligazionisti, esce dal mercato dei titoli di Stato e chiede assistenza al Fondo monetario internazionale, proprio come potrebbe succedere per la Grecia. Esiste un metodo per calcolare il rischio che uno Stato fallisca in un intervallo temporale di cinque anni: i Credit default swap o Cds.
Questi strumenti finanziari, emessi da banche e società di riassicurazione, non sono altro che delle polizze assicurative che, dietro al pagamento di un premio annuale (calcolato in punti base), proteggono dall’insolvenza di un titolo di Stato. Prendiamo Atene: sulla piattaforma Cma Vision i Cds sul debito greco sono prezzati a oltre 2.250 punti base. Questo significa che per assicurarsi contro il fallimento di un bond ellenico con scadenza quinquennale del valore di 10 milioni di dollari, occorre sborsare 2,2 milioni l’anno. Il rischio default si può anche rappresentare con una percentuale, che calcola la probabilità che un emittente smetta di onorare le proprie obbligazioni nei prossimi cinque anni. Nel caso della Grecia questo valore è intorno a quota 82 per cento.