L’Italia conquista un pezzo d’Africa. Per la precisione della Repubblica di Gibuti, poche migliaia di chilometri quadrati sulla costa orientale del Continente Nero, davanti al golfo di Aden. Qui, tra pochi mesi, sorgerà una piccola enclave tricolore. Una base militare sotto il diretto controllo delle nostre forze armate.
Il primo “dono” al Gibuti, parte del pagamento chiesto dallo stato africano per cedere una porzione del proprio territorio, sarà autorizzato nei prossimi giorni dal Parlamento. Si tratta di mezzi militari. Una cessione a titolo gratuito alle forze armate gibutiane di materiale in dotazione al nostro esercito. Valore, 430mila euro. L’operazione è stata inserita all’interno del decreto di rifinanziamento delle missioni all’estero (articolo 1, comma 18). Anche se nel documento il governo ha evitato accuratamente di menzionare la prossima apertura della base militare italiana.
Iniziativa meritevole, peraltro. Necessaria per supportare le attività di controllo del fenomeno della pirateria frequente in quell’area. Nel decreto firmato dal governo Monti non ci sono troppe spiegazioni. Si autorizza unicamente «la cessione di mezzi di trasporto e logistici alla Forze armate della Repubblica del Gibuti». Qualche dettaglio in più è contenuto nella relazione tecnica allegata. Dove si scopre che il grosso della “donazione” riguarda 40 autocarri Iveco ACM80. Mezzi acquistati dall’esercito italiano negli anni ’90 e prossimi alla sostituzione. Per gli interventi manutentivi necessari prima dell’invio in Africa, il ministero spenderà 316mila euro. Ci sono poi 4 veicoli VM90, (16 mila euro), dieci barchini (70mila euro) e ancora autocisterne, un’autobotte, autogru. «Tutti materiali richiesti espressamente dalla Repubblica di Gibuti per rafforzare l’operatività delle proprie forze armate», racconta oggi chi ha seguito da vicino quella trattativa.
Nel decreto del governo si fa riferimento a un accordo quadro tra Italia e Gibuti firmato dieci anni fa. Un memorandum sulla cooperazione nel settore della difesa, siglato il 30 aprile 2002 e ratificato dal Parlamento italiano un anno più tardi. Un trattato che prevedeva espressamente la cessione gratuita di materiali militari. Consuetudine frequente nelle relazioni internazionali con paesi in via di sviluppo, spesso con l’obiettivo di pubblicizzare le nostre industrie belliche. Insomma, un accordo «destinato ad avere un impatto favorevole sugli imprenditori del settore» come spiegava la relazione tecnica presentata dieci anni fa a Palazzo Madama. Per attuare quel memorandum, però, il Parlamento aveva autorizzato una spesa molto minore di quella prevista oggi. Poco più di 20mila euro annui. Ad anni alternati.
Evidentemente la crescente importanza geostrategica del Gibuti ha fatto salire i costi. «L’interesse del mondo occidentale per quel Paese – continua la testimonianza – è iniziato nell’autunno del 2001, all’indomani dell’attentato alle torri gemelle di New York». Sono i mesi in cui gli Stati Uniti iniziano a dare la caccia ad al Qaeda. L’operazione militare Enduring Freedom interessa l’Afghanistan, ma sono molti i paesi a finire sotto osservazione da parte dell’Intelligence di Washington. Tra questi lo Yemen. Il paese all’estremità meridionale della penisola araba – proprio di fronte al Gibuti – che gli Usa sospettano di avere rapporti privilegiati con l’organizzazione di Bin Laden.
Negli stessi anni il Corno d’Africa finisce al centro dell’attenzione mondiale per un altro fenomeno: quello della pirateria. Nel 2006, dopo la caduta delle corti islamiche di Mogadiscio, nel golfo di Aden si intensifica l’attività dei pirati somali. Nel 2008 iniziano gli sforzi internazionali per contrastare il fenomeno. Tre anni fa le Nazioni Unite autorizzano un’operazione militare – denominata Ocean Shield – per proteggere i convogli che attraversano quel tratto di mare. Gibuti diventa ancora una volta un territorio di primaria importanza. Da qui, infatti è possibile controllare lo stretto marittimo di Bab el-Mandeb, tappa obbligata per i mercantili che attraversano l’area, dove ogni giorno passano oltre tre milioni di barili di greggio.
E così nell’ultimo decennio diversi paesi occidentali hanno provato a radicare le propria presenza nella zona. La Francia ha trasferito nella Repubblica di Gibuti la più grande base militare d’oltremare. Costo dell’operazione, 34 milioni di dollari dal 2003 al 2011. «Necessari per assicurarsi il diritto di stazionamento di truppe nel Paese» stando ai dati forniti dalla Farnesina. Non si conoscono i dettagli dell’accordo che ha portato alla creazione di una base militare statunitense a Gibuti. Ma da qualche anno la repubblica africana è divenuta il maggior beneficiario degli aiuti allo sviluppo Usa di tutta l’area sub-sahariana. Persino il Giappone ha recentemente inaugurato una base militare a Gibuti. L’unica base al di fuori dei propri confini. E poi c’è l’Italia. «Dopo aver capito l’importanza strategica dell’area – spiega ancora la fonte – anche il nostro Paese ha dirottato alla piccola repubblica una parte rilevante dei fondi per la cooperazione con i paesi in via di sviluppo. Ogni anno versiamo al Gibuti diversi milioni di euro».
La necessità di organizzare una nostra base militare nel Corno d’Africa nasce lo scorso autunno. Quando il governo Berlusconi autorizza la presenza di scorte armate sui mercantili che attraversano il golfo di Aden. A ottobre l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa firma un protocollo d’intesa con il presidente di Confitarma Paolo D’Amico, rappresentante degli armatori italiani. Da quel giorno viene messa una squadra di sessanta uomini del Battaglione San Marco a disposizione dei nostri mercantili (dieci scorte da sei militari ognuna). La base americana, finora utilizzata dagli italiani, non è più sufficiente. C’è bisogno di un avamposto militare sotto diretto controllo del nostro esercito. Per gestire il transito di uomini, ma anche di armi e munizionamento.
Mistero sui tempi. Anche se fonti istituzionali confermano che la base italiana dovrebbe aprire i battenti a breve. Ecco perché, raccontano ancora, il governo ha deciso di inserire la cessione di materiali alle forze armate gibutiane (cui seguiranno altri pagamenti) in un decreto legge. L’unico provvedimento che offre la garanzia di un’approvazione certa entro sessanta giorni.