Eve Arnold
(21 aprile 1912 – 3 gennaio 2012)
Di Philadelphia, ma da cinquant’anni inglese, a Londra, per scelta. I giornali americani l’hanno ricordata in poche parole istantanee: «Ha fotografato ognuno, con la O maiuscola». Cioè, “Everyone” con la E alta. Suo marito – americano, e da cui avrebbe divorziato – si chiamava Arnold Arnold e faceva il designer industriale. Suo padre, il rabbino Cohen, nato ucraino, aveva nove figli e voleva che lei studiasse medicina. Ma lei, a 28 anni, se n’era andata a New York. «Dove ci sono i ragazzi», aveva detto.
Il mondo che ha fotografato, e come lo ha visto, non ha età anche quando è molto giovane: Marilyn, Malcom X, la rivoluzione cinese, Angela Davis, nei chiaroscuri di Eve Arnold sono il tempo che non passa, anche se appartengono al dopoguerra. Cioè a una Storia infinita. Vanno oltre l’immagine, o lo scatto: sono disegni, ritratti, insiemi di una vita immediata, beccata all’istante, anche quando viene studiata in una collana di pose.
Di Marilyn Monroe, Eve è stata la più completa biografa: Marilyn che si prende con la mano destra una treccia corta (mai vista così), Marilyn sorridente con Arthur Miller (un meraviglioso, e disperato, ritratto dell’Illusione, con la I maiuscola), Marilyn sul set dell’ultimo film, Gli spostati (ossia la morte e il mito, già incastrati una nell’altro).
È stata – è – la fotografa della luce: usata come scenografia essenziale, e anche come costume di scena di persone reali, che recitavano, restando se stessi, o se stesse, guardate da quell’obbiettivo ipersensibile. Una foto di Elizabeth Taylor e Richard Burton è l’immagine di una coppia regale, molto più dei Windsor (e sono inglesi tutti e due). Liz è un primo piano di tre quarti, illuminato; Richard, a fianco, appoggiato in pieno busto è un altro primo piano nell’ombra, un principe consorte con un carattere tutt’altro che laterale (anche Filippo di Edimburgo è un po’ così).
È stata la fotografa accettata nell’agenzia Magnum, che con quel nome – un auto-battesimo giustificato dalle persone che ne facevano parte – sarebbe diventata una delle novità più importanti del dopoguerra: con Henri Cartier- Bresson, Robert Capa, Chim Seymour, e gli altri, gli “istantaneisti” di Tutto, con la T alta.
Cartier-Bresson e Capa avevano già “messo a fuoco” la Storia e il mondo sempre più concatenato di quell’epoca: la guerra di Spagna, la Cina, la nascita di Israele. Seymour era capace di far vedere, in un battito di palpebra, l’espressione soddisfatta e annoiata di una bella donna nel foyer del San Carlo di Napoli. Erano – e restano – dei narratori con delle intuizioni immediate. Eve Arnold aveva, anche lei, tutte quello doti – elaborate, ovviamente a suo modo – ed è vissuta quasi cento anni.
Il secolo scorso. La sua Cina di Mao (percorsa nel 1979 per 40 mila miglia) è una sfilza di ufficialità comuniste, ma anche un solitario cavaliere della Mongolia interna. La sua America (cioè l’America anni Sessanta) è anche Malcom X visto di profilo, non eroico, né capo: il cappello sugli occhi, la mano sul collo, forse ha un prurito, forse il gesto lo aiuta a pensare. Al polso l’orologio, evidente, è anche lui un particolare essenziale. O un punto istantaneo del secolo scorso.
Frederica Sagor Maas
(6 luglio 1900 – 5 gennaio 2012)
Il cinema muto che viveva fino a pochi giorni fa: è vissuto 111 anni e 83 giorni, attraverso una delle sue più celebri sceneggiatrici e drammaturghe. Di Hollywood, naturalmente. Nata a New York, da genitori russi (Zagorski, il cognome originario), sposata con Ernest Maas, che faceva il suo stesso mestiere, e aveva le sue stesse idee. Matrimonio, senza figli, ma più che logevo: sempre insieme, fino ai 94 anni di Ernest. È morta a Country Villa, una casa di riposo a La Mesa, California.
Le sue idee, e quelle del marito: «Credo fermamente di essere bolscevica. Sono sempre dalla parte dei più deboli». Quando era ragazza, e poi giovane, e poi più adulta, fra i deboli dalla cui parte stare, c’erano le donne. Erano i tempi delle tappe – battaglianti, faticose, una dopo l’altra – del movimento femminista. Frederica aveva sfilato, a New York, nelle marce delle insegnanti, in particolare. L’avrebbe ricordato, con la stessa passione, nelle sue memorie.
A Hollywood – periodo della nascita del cinema, muto – le primedonne erano le attrici, ovviamente. Lì Frederica avrebbe trovato il suo posto, dal 1927: prima alla Metro, poi alla Fox, quindi alla Paramount. Lì avrebbe anche contribuito a lanciare le donne del cinema di allora. Si parla della bruna Louise Brooks (il modello di Crepax per Valentina), di Greta Garbo, di Norma Shearer (è stata la protagonista di uno dei primi film sul disastro del Titanic). Si ricordano anche star maschili ben propagandate da Frederica: John Gilbert (l’amante spagnolo di Cristina di Svezia, nell’omonimo film con la Garbo), o di Emil Jannings (il professore nell’Angelo azzurro, con Marlene Dietrich).
Sempre a Hollywood, lei avrebbe trovato un terreno quasi ideale per lottare, e per scrivere, anche di quella battaglia. Il tema: come venivano trattate le donne sui set. Attrici, soprattutto. Un bel backstage – non necessariamente bolscevico – alle spalle dell’immagine della star servita, riverita, usata spesso fino alla privata devastazione.
Fino alla vecchiaia, Frederica Sagor ha tenuto una cronaca nell’Hollywood Reporter: una specie di “reality”- sceneggiatura con osservazioni, citazioni di fatti veri, e di denunce.
La più famosa si riferiva alla lavorazione di The Shocking Miss Pilgrims, protagonista Betty Grable. Un plot sui movimenti femministi di inizio secolo. Frederica ha raccontato tutte le villanie, il disprezzo velato, riservati alle protagoniste di quel film, anche alla Grable. È stato un vero pamphlet, il primo di Hollywood, in quel genere. Ha fatto epoca, molto direttamente. Negli anni Cinquanta, in pieno maccartismo, l’Fbi l’avrebbe usato per contestare a Frederica (e a Ernest) le loro attività comuniste e antiamericane. Ma senza conseguenze. Loro sarebbero rimasti delle loro idee, ma per denunciare, più che per complottare.
Erano anche rispettatissimi e amati per il loro lavoro: si ricordano tuttora le centinaia di script, anche lasciati lì, non arrivati a un film, della coppia Sagor-Maas. La routine, la macchina di pensiero del cinema, le sue prove. Quello che non si vede sulla ribalta, poco amata da quella ex manifestante, di New York, russa, e bolscevica. Che, negli ultimi anni, sarebbe stata anche piazzata nella classifica del Gerontology Research Group, l’associazione che elenca gli ultrasecolari del mondo. Fino a pochi giorni fa Frederica era al terzo posto, fra gli “over hundred” di Los Angeles.
Denise Darcel
(8 settembre 1924 – 23 dicembre 2011)
Attrice francese, di Parigi, diventata americana negli anni Cinquanta. Non è successo, e non succede, spesso, negli scambi cinematografici fra di i due paesi. Lei è morta a Los Angeles, per la rottura di un aneurisma. La sua carriera merita un breve ricordo.
Per il suo passaggio in America, dopo la guerra, e già con una buona fama di cabarettista a Parigi. Per il fatto di esserci rimasta, diventandone cittadina, nel 1952. Per aver subito avuto un breve successo a Hollywood, bloccato da una leggenda probabilmente verosimile: era molto bella (vistosa, fuori dal modello “francese”, piccante, oppure interessante), il tycoon Howard Hughes fece le sue avances. Lei gli rispose che non era il caso.
Poi fu il turno del potente Harry Cohn, patron della Columbia: stessa offerta, analogo rifiuto. Sul set avrebbe comunque mantenuto le posizioni: era la protagonista di Bastogne (1949), con Van Johnson, e soprattutto sarebbe stata la star di Vera Cruz (1954), un western da antologia di Robert Aldrich. Senza avere nessun carattere patrizio, recitava bene la parte di una contessa con due partner monstre: Gary Cooper e Burt Lancaster (non ancora rimodellato ad aeternum, come Gattopardo).
Era stata anche una celebre Jane in uno dei film su Tarzan, con Lex Barker nel ruolo dell’uomo della foresta. Denise va anche ricordata per lo spirito d’iniziativa – e per la sicurezza su se stessa – dimostrato a 40 anni: Hollywood la trascurava, e lei tornò all’antico genere francese, il cabaret, aggiungendoci, alla parigina, lo strip-tease.
Per un po’ di anni ha girato, in quelle vesti, gli Stati Uniti. Rinata, e tuttora ricordata per quel coraggio dei 40 anni.