Esiste una forte dissonanza tra la percezione che hanno di sé le Forze armate israeliane e la visione che invece ha una buona parte dell’opinione pubblica mondiale riguardo i principi etici cui si ispira l’Idf (Israel Defence Forces, le Forze di Difesa Israeliane). Mentre l’esercito israeliano infatti si autoproclama “l’esercito più morale del mondo”, sono in molti a considerare l’Idf tra i maggiori responsabili di crimini di guerra e addirittura di crimini contro l’umanità. Ma quali sono i valori etici fondamentali e i principi legali internazionali che guidano l’Esercito israeliano?
Secondo Asa Kasher, filosofo, tra i redattori del codice morale dell’Idf, sono due i valori fondamentali che contribuiscono all’unicità dell’esercito israeliano: la priorità della vita umana e l’etica degli armamenti. La concezione della vita umana come prioritaria è generata dalla convinzione che ogni individuo ha diritto alla propria dignità e impone a ciascun soldato il dovere di rispettare e proteggere il diritto di ognuno alla vita. Il valore dell’etica degli armamenti scaturisce invece dall’idea che, anche quando necessario, l’uso della forza deve essere contenuto e giustificato. Kasher afferma che questi due valori sono fondamentali nel formare uno standard etico particolarmente elevato all’interno dell’esercito.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa – che ha una missione in Israele e nei territori occupati dal 1948 – riconosce che questi valori sono conformi al Diritto Internazionale Umanitario. Il Diu, corpus di leggi internazionali, che si basa sul delicato equilibrio tra necessità militari e salvaguardia dei Diritti Umani, rimane tuttavia elusivo in diversi ambiti e un consistente numero di principi viene costantemente dibattuto tra esperti, i quali sono lungi dal raggiungere un consenso. Nuovi fenomeni quali il terrorismo, gli attacchi informatici, l’uso dei droni, creano nuovi dilemmi e inducono ad una continua riflessione sulle norme tradizionali e soprattutto sulla loro interpretazione.
Lo stesso comitato della Croce Rossa puntualizza però al contempo che un tale codice etico è troppo generico ed astratto e che l’assenza di linee guida specifiche è spesso causa di libere interpretazioni contrarie ai principi stessi del codice etico. Inoltre, al giorno d’oggi, il conflitto si sviluppa non solo in uno scenario bellico vero e proprio, ma anche nel campo mediatico, in una lotta costante per riaffermare la propria legittimità, la cosidetta “lawfare” (guerra legale). Su questo palcoscenico, le parti in conflitto se da un lato alterano l’interpretazione delle leggi internazionali in base alle proprie finalità, dall’altro sono tenute al rispetto del diritto internazionale, unità di misura nella lotta per affermare la legittimità degli scopi di ciascun contendente.
Le Forze di Difesa Israeliane dichiarano che i principi del Diritto Internazionale Umanitario vengono rigidamente osservati dall’esercito e sono incorporati nella sua etica ed in ogni pianificazione di operazioni militari. Addirittura, sempre secondo l’Idf, accade spesso che l’esercito applichi regole e limitazioni più rigide di quelle imposte dal diritto internazionale. Eppure, episodi recenti quali la guerra in Libano nell’estate del 2006, l’operazione Piombo Fuso nel 2009 e l’incidente con la nave turca Mavi Marmara nel maggio 2010, hanno posto Israele sotto pesanti critiche, sono stati motivo di accuse di violazione del Diritto Umanitario e di crimini di guerra, e hanno generato una crescente convinzione che all’interno dell’esercito dello Stato Ebraico operazioni illegali e immorali vengano pianificate intenzionalmente.
Quali ragioni si nascondono dietro ad una discrepanza così plateale? È necessario anzitutto effettuare un distinguo tra quelle che sono le politiche militari e la condotta individuale dei soldati. Anche quando le politiche dell’esercito sono perfettamente conformi alle norme legali internazionali, è ovviamente possibile che i soldati non le rispettino e violino non solo i codici internazionali ma anche le norme stesse del loro esercito. Seppure il problema non possa essere affrontato ex ante, è forse possibile far fronte a tali (relativamente frequenti) violazioni agendo a posteriori.
È di fondamentale importanza, infatti, che il sistema investigativo e l’apparato giudiziario all’interno dell’organo militare siano indipendenti ed efficaci nel punire i colpevoli, in modo tale da restituire all’esercito la legittimità persa per la condotta di singoli soldati. Questo è probabilmente uno dei punti deboli delle Forze armate israeliane: dopo l’operazione Piombo Fuso, nel gennaio 2009, solo tre dei soldati sotto accusa sono stati dichiarati colpevoli e hanno ricevuto una pena commisurata ai loro crimini.
Di fatto, nonostante l’elevato numero di accuse nei confronti dei soldati, solo una piccola parte di essi viene dichiarata colpevole. Secondo una ricerca dell’Israeli Democracy Institute (IDI) condotta da Yuval Shany e Ido Rosenzweig, il divario esistente tra il gran numero di indagini e il ristretto numero delle imputazioni può essere spiegato o con l’inconsistenza di una parte delle accuse formulate contro l’Idf, o con i malfunzionamenti inerenti al sistema di indagine delle Forze di Difesa israeliane, o con la combinazione delle due concause.
In secondo luogo, esiste un importante problema di comunicazione che si sviluppa su diversi livelli. «Nonostante l’esercito osservi minuziosamente i codici legali internazionali, non è in grado di spiegare adeguatamente le proprie azioni di fronte alla comunità internazionale» afferma Hila Adler, ex direttrice della Scuola di diritto militare dell’Idf. Molte delle informazioni che vengono utilizzate durante la pianificazione delle operazioni militari sono segrete e non possono essere comunicate ai media, i quali, soprattutto in Occidente, sono invece abituati a una totale trasparenza e all’uso di qualsiasi tipo di informazione a fine informativo.
Inoltre è estremamente difficile spiegare la legittimità (non necessariamente morale) di uno dei principi cardine del Diritto Internazionale Umanitario: la proporzionalità. Tale principio ammette la possibilità dell’uccisione di civili se proporzionale al vantaggio militare atteso da un’operazione. La norma della proporzionalità, seppur legale, è indubbiamente difficile da accettare moralmente.
Un ultimo ma centrale problema riguarda il fatto che, in particolar modo nei conflitti in cui è coinvolto Israele, è spesso assai difficile distinguere tra civili e militanti. Molte volte, i militanti conducono intenzionalmente operazioni militari in zone densamente popolate o addirittura usano civili come scudi umani, violando il principio di distinzione, forse il più importante nel codice del diritto bellico, e rendendo estremamente complicato per l’avversario distinguere i combattenti dai civili.
Vi sono però anche alcune pratiche proprie dell’esercito fortemente criticate da organizzazioni civili che si occupano della difesa dei diritti umani. “Breaking the silence”, un’organizzazione di ex militari che si propone di esporre alla società israeliana la realtà dei territori occupati, denuncia ad esempio la pratica del “bussare alla porta”, secondo la quale un vicino viene inviato ad evacuare tutti i civili in una casa dove sta per avvenire un arresto. Secondo gli attivisti tale pratica mette a forte rischio il vicino innocente, forzandolo ad assumere un ruolo di “scudo umano”. Secondo le Forze di Difesa Israeliane invece, tale metodo, evacuando i civili che si trovano nelle vicinanze di una persona ricercata, riduce notevolmente il rischio di mettere in pericolo altre vite. In ogni caso, la pratica è stata dichiarata contraria al Diritto Internazionale dalla Corte Suprema Israeliana e pertanto proibita. La Corte è infatti solita supervisionare le azioni dell’esercito e in passato si è pronunciata in diverse occasioni riguardo la condotta dell’Idf (per quanto concerne gli omicidi mirati ad esempio, o sul percorso del muro di separazione), obbligando l’esercito a rivedere o annullare alcune sue pratiche.
La verità è che Israele fa fronte ad una situazione estremamente complessa: in bilico tra il dovere di attenersi a valori etici anche in guerra e la necessità di difendere i suoi cittadini in uno scenario bellico ben lontano dal tradizionale conflittico stato-contro-stato. Dichiara Kasher: «Non c’è bisogno di istituire paragoni e di dichiarare che quello israeliano è l’esercito più morale del mondo. L’idea che l’Idf debba perseguire un codice etico solido e seguire le norme del Diritto Internazionale non deriva solo dal fatto che esiste una comunità internazionale a cui dover rendere conto, ma anche semplicemente dal fatto che ogni israeliano deve potersi guardare allo specchio e avere la coscienza pulita».