È un addio provvisorio sia pur sempre Malinconico. Eppure le dimissioni “imposte” dal premier segnalano un vizio di fondo del Palazzo che è ben lungi dall’essere sradicato. L’inciampo antico (i soggiorni graziosamente offerti da una “cricca” in un hotel di lusso all’Argentario, anche se non affiorano escort nella dotazione di servizio) appare un granello di sabbia in una macchina del potere romana ben oliata e dai contorni ben altrimenti significativi.
Nessuno infatti, tra i tanti moralisti improvvisati, si è posto un qualsiasi problema di etica e anche solo di opportunità quando il professor Carlo Malinconico Castriota Scanderberg è stato nel pensoso consenso generale nominato Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega esclusiva all’Editoria, ovvero all’ufficio delicato che è il crocevia dove si distribuiscono i fondi pubblici all’editoria e in particolare alla carta stampata, fondi che assicurano la tranquilla sopravvivenza economica a tutti (diconsi tutti) i giornali che si pubblicano in Italia.
Peccato che l’universalmente stimato Professor Malinconico fosse da più di tre anni e fino al giorno prima della nomina al governo il Presidente della Fieg (ovvero la Federazione Italiana degli Editori di Giornali) che proprio dal Servizio Editoria di Palazzo Chigi si rivolge per avere fondi da mungere. E che gli interessi concretissimi degli Editori il loro Presidente sapesse sapientemente rappresentare è una realtà ben accertata (come raccontano i vertici del sindacato dei giornalisti che l’hanno avuto di fronte nella trattativa sui contratti e lo raccontano come «negoziatore abile, cortese e spietato»). Che qualche conflitto ci poteva essere, anche un bambino cieco l’avrebbe potuto vedere. Ma nell’entusiasmo per il “governo tecnico”, tutta l’informazione “indipendente” era chissà come mai del tutto obnubilata.
Certo il Professore, titolare di una cattedra di Diritto Europeo e di un prestigioso studio legale della Capitale, (oltre che Consigliere di Stato, capo dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi nei diversi governi Prodi e altre decine di incarichi) lo ricordano benissimo anche alla Rai. Nel 2005 fu l’unico luminare del diritto a sostenere, con un argomentato parere, la piena liceità della nomina a Direttore Generale di Viale Mazzini di Alfredo Meocci, (voluto a tutti i costi da Berlusconi) nomina che era invece legalmente incompatibile. Meocci saltò dopo qualche mese, la Corte dei Conti chiede tutt’ora alla Rai oltre 15 milioni di euro di risarcimento. E l’ineffabile Malinconico dichiarò in tribunale che, «dato il poco tempo a disposizione, il suo parere non era stato sufficientemente meditato…».
Più larga e corposa è invece la consulenza con la quale stabilì le ragioni giuridiche del buon diritto del neo-ministro della Funzione Pubblica Filippo Patroni Griffi a papparsi contro il Tesoro a prezzi stracciati una casa con vista Colosseo (al confronto il dimissionario Claudio Scajola ci fa la figura del povero dilettante, se non del cioccolataio). E da tutte queste controverse vicende il chiarissimo Professor Malinconico ne è sempre uscito verginello, fino alla buccia di banana delle vacanze “a gratis”.
Ognuno giudichi come vuole: la vicenda Malinconico è affidata alla sua coscienza e alle inchieste della magistratura, se deciderà di occuparsene. E tuttavia una riflessione generale questo caso lo propone. Anche se dotato di un pizzetto luciferino, il nobile Professore non è un marziano sbarcato dal Paese delle Aquile, e neppure una riprovevole eccezione. La sua lunghissima navigazione nei meandri dell’alta amministrazione ne prova semmai il fatto incontrovertibile che si tratta della abituale normalità del Palazzo, che è il caso emblematico del diffuso potere di una casta di fatto non scalfibile (salvo eventi fortuiti) e che si suole definire sottovoce ( ma molto sottovoce) la “Confraternita delle Salamandre”. Ovvero quel ceto sociale molto romano e in perenne espansione che vive, prospera e si allarga intorno agli organi istituzionali. Un ceto di giuristi, tecnici dei regolamenti, esperti amministrativi, del tutto intercambiabile e rigorosamente “bipartisan” che occupa stabilmente i gradi più alti e i gangli decisivi della Pubblica Amministrazione.
E che traversa, appunto come le salamandre, il fuoco del conflitto politico e di naturale schieramento, indifferente alle maggioranze e alle riforme: che si è costruito nel tempo l’esclusiva competenza di percorrere i sentieri nel groviglio regolamentare, nella giungla normativa, che solo sa interpretare, anche perché non esita a seminare qua e là un’interessata leggina, un astuto codicillo, un cavillo giuridico adatto a complicare l’iter burocratico e insieme a sciogliere nell’indistinto le individuali responsabilità.
È un ceto brillante e pure umanamente simpatico, che saltabecca tra uffici ministeriali, consiglio di Stato, alte magistrature, studi professionali e cattedre universitarie e Authority di varia natura, moltiplicando incarichi consulenze e prebende, oltre ai gettoni di presenza negli organi dirigenti nelle società pubbliche o para-pubbliche. Un mondo dove tutti si conoscono e si sostengono a vicenda contro i poteri “esterni”, salvo dividersi all’interno in guerre di cordate e in feroci e sotterranee lotte di potere.
Un tempo, nel pieno dello sviluppo di un Paese ottimista che cresceva comunque “nonostante lo Stato”, si riusciva a sorridere nel mondo produttivo delle follie burocratiche e dei tecnicismi da Azzeccagarbugli. Ora che la crisi morde, pesa il macigno del debito e l’economia resta immobile, zavorrata dall’inefficienza oppressiva dello Stato, si comincia confusamente a cogliere la necessità di porvi rimedio.
È intorno al Palazzo che può (e deve) consumarsi la possibilità del cambiamento. Sapendo però che il “generone romano”, tutto compattamente tesserato nel “Partito Unico della Spesa Pubblica”, ne costituisce strutturalmente l’ostacolo principale e agguerrito, anche per l’indiscussa abilità nello stemperare morbidamente e annegare nelle sabbie mobili del groviglio giuridico-regolamentare i più coraggiosi propositi rivoluzionari, se non le più concrete istanze riformatrici.
Toccherebbe alla politica: ma il ceto amministrativo l’ha da tempo (almeno dalla caduta della Prima Repubblica) messa al guinzaglio. Con la seduzione dei piccoli e grandi privilegi, con la moral suasion dell’indispensabile competenza tecnico-giuridica, con il peso normativo delle incerte e sempre rimandabili regolazioni di applicabilità, e pure con quella sottile complicità salottiera e godereccia in cui Roma resta maestra inarrivabile.
Gli “eletti dal popolo” sono sempre stati considerati dai burocrati un “male necessario” da prendere per mano e guidare nei labirinti della norma di cui solo loro possiedono il filo d’Arianna. E se poi si passa direttamente al “governo tecnico”, i politici diventano il bersaglio più evidente e più comodo contro cui scaricare (grazie anche a un’informazione compiacente e ben incistata con il Palazzo) il sacrosanto rancore popolare per le caste e i loro costi.
In un soprassalto di autentica sincerità il premier Monti si è lasciato andare nell’ammettere che i politici «gli fanno pena» per il discredito e il furore collettivo al quale sono sottoposti e che invece dovrebbero essere aiutati a ritrovare il prestigio e l’autorevolezza che una democrazia matura riconosce alla funzione della politica. Forse potrebbe riconoscere che proprio i “tecnici” sono i meno adatti a questo compito. Malinconico docet.