BRUXELLES – Dopo anni di negoziati semi-segreti e crescenti proteste, alla fine il bubbone è scoppiato, costringendo la Commissione Europea a interpellare direttamente la Corte di giustizia Ue. Parliamo di Acta, un acronimo semisconosciuto al vasto pubblico, perché la stampa praticamente non ne parla, ma che invece potrebbe avere, almeno a sentire i numerosissimi critici, un impatto pesante sulla libertà di espressione nella Rete aumentando controlli da parte degli operatori tlc e invasioni di campo anche nella privacy dei navigatori.
Acta sta per “Anti-Counterfeiting Trade Agreement”, accordo commerciale anti-contraffazione. L’obiettivo è comprensibile, arginare la valanga di prodotti piratati in giro per il mondo, per un valore stimato di almeno 200 miliardi di euro. A firmarlo, il primo ottobre 2011 a Tokyo, Australia, Canada, Giappone, Marocco, Nuova Zelanda, Singapore, Corea del Sud e Usa. Il 26 gennaio 2012 sono seguiti l’Ue e 22 suoi stati membri (tra cui l’Italia). Perché entri in vigore Acta dovrà esser ratificato da almeno sei partecipanti entro il maggio 2013.
Che c’è di male a voler fermare la contraffazione di prodotti, di cui peraltro sono vittime tante aziende italiane? Di per sé niente, ovviamente. Se però la Commissione Europea, come ha annunciato oggi con enfasi il commissario europeo al Commercio Karel De Gucht, ha deciso di rivolgersi alla Corte non è un caso. Bruxelles, strenua sostenitrice dell’accordo Acta, ha dovuto così rispondere alle crescenti proteste in giro per l’Europa, con tanto di un appello firmati da 90 accademici, una lettera di 75 professori di diritto a Barack Obama per chiedergli di non firmare, le dure prese si posizioni del Parlamento Europeo e di tantissime organizzazioni non profit, per non parlare di manifestazioni in varie città europee ed americane. Potremmo aggiungere che alcuni paesi che non hanno firmato – e stavano per farlo – hanno bloccato la decisione, tra questi la Germania e la Polonia. Varsavia ha già detto che non firmerà più. «Il commissario De Gucht – ha commentato l’europarlamentare britannico David Martin, nuovo relatore per Acta – ha ammesso oggi che vi sono ancora molti punti interrogativi».
La prima cosa singolare è la segretezza con cui sono stati condotti i negoziati, durati oltre cinque anni. C’è voluta WikiLeaks, nel 2008, perché la notizia dei negoziati su Acta arrivasse al pubblico. Organizzazioni non profit, paesi in via di sviluppo e il pubblico in generale sono stati tenuti del tutto fuori dai negoziati, con la documentazione tenuta a lungo segreta. Al contempo, pieno accesso – ma con l’obbligo di non rivelare i contenuti – hanno avuto Google, Ebay, Time Warner, Sony Pictures, News Corporation, nonché la potente Motion Picture Association of America, che rappresenta le sei major del cinema Usa.
A preoccupare è anzitutto il capitolo 2, dedicato alla tutela giuridica dei diritti di proprietà intellettuale. «Le misure di applicazione delle parti – si legge nella sezione 5 – si applicano alle violazioni dei diritti d’autore o diritti simili mediante le reti digitali, che possono comprendere anche l’impiego illegittimo dei mezzi di distribuzione di massa». «In questo capitolo – dice a chi scrive Joe McNamee dell’ong Edri (European Digital Rights) – si chiede di fatto agli Stati di incoraggiare i gestori di telecomunicazioni e provider di controllare attentamente quello che fanno gli utenti di Internet, con la possibilità di intervenire qualora ritengano che siano violati diritti intellettuali». McNamee ricorda quanto accade in alcuni stati europei, «in Irlanda c’è la regola del “three strike”, un utente può esser privato dell’accesso alla Rete se trovato tre volte irregolare sul fronte dei diritti; mentre in Gran Bretagna i gestori di tlc sono incoraggiati dal governo a intervenire attivamente in caso di azioni illecite, bloccando anche un intero sito di per sé legale magari per colpa di un solo utente. Sono eccezioni che diverrebbero la regola se passerà Acta».
Non basta: l’accordo lascia agli stati la possibilità di decidere se alle frontiere, soprattutto negli aeroporti, i passeggeri debbano sottoporre a verifica antipirateria computer, iPad e simili, con la possibilità di confisca, come già accade negli Usa. Secondo McNamee, in generale, «il testo è così poco chiaro e aperto alle interpretazioni che si dovrà attendere l’interpretazione autentica, ad accordo siglato, che ne darà il Comitato Acta. E può uscire fuori di tutto».
La Commissione europea, invece, si dice tranquilla, i giudici diranno che non ci sono problemi. Se si è rivolta alla Corte Ue, spiega il commissario De Gucht, è perché «il dibattito deve essere fondato su fatti e non su disinformazione o voci che hanno dominato i social media e i blog nelle recenti settimane». Per il commissario «Acta non cambierà niente del modo di come usiamo l’Internet e i siti sociali, visto che non introduce nuove regole». «La Commissione – avverte ancora McNamee – chiederà solo se Acta viola i trattati Ue, dunque considerando solo il 10% dei problemi rilevati. E con una domanda così limitata è difficile che i giudici rilevino una incompatibilità. È solo un’abile mossa politica».
Come ammette a chi scrive una fonte comunitaria, «volevamo semplicemente calmare il dibattito, con il via libera della Corte potremo procedere tranquilli». A meno che, spera Edri, qualcuno, magari la Polonia, faccia le «domande giuste» alla Corte.