Navigare senza essere spiati. Sembra impossibile, in particolare dopo le recenti polemiche per la gestione dei dati degli iscritti a Facebook e Google, accusato di monitorare i comportamenti online degli utenti di Safari, il browser di Apple. Ma sarà presto realtà. Dopo oltre un anno di pressioni, infatti, il colosso di Mountain View ha accettato di inserire un bottone per la privacy sul suo strumento di navigazione, Chrome. Attivandolo, i cittadini digitali potranno dire espressamente a Google che non ha intenzione di fargli tenere sotto controllo le sue abitudini su Internet, impedendo che vengano sfruttate per fornire pubblicità personalizzate. Allo stesso modo, i dati non potranno essere utilizzati in ambiti fondamentali della loro vita, dalla ricerca di impiego alla sanità, dal credito alle assicurazioni.
«La tecnologia “do not track”», spiega a Linkiesta il presidente dell’Istituto italiano per la privacy, Luca Bolognini, «corrisponde, di fatto, a un “opt-out”: cioè l’utente deve attivamente rifiutare il tracciamento e la profilazione, altrimenti viene seguito e catturato dall’operatore pubblicitario. Questo non corrisponde alla normativa europea, che è stata disegnata per l’opt-in, cioè l’impossibilità di tracciare l’utente con cookie se questo non accetta attivamente».
La funzionalità – già presente su Mozilla Firefox, Explorer di Microsoft e nell’ultima versione del sistema operativo di Apple, Mountain Lion – sarà implementata su Chrome entro fine dell’anno. E, sempre entro qualche mese, dalle altre 400 aziende raccolte sotto l’etichetta “Digital Advertising Alliance” che, secondo quanto riporta il Wall Street Journal, hanno raggiunto la stessa decisione stipulando un preciso accordo con la Casa Bianca.
L’amministrazione Obama, infatti, ha da poco pubblicato un libro bianco, frutto di due anni di lavoro, che include – oltre alla richiesta di adottare l’opzione “do not track” – una prima “Dichiarazione dei diritti del consumatore in materia di privacy”: una serie di principi cui gli operatori del settore devono attenersi nel trattamento dei dati personali dei loro utenti. Le aziende che hanno sottoscritto l’accordo, che secondo la Casa Bianca forniscono il 90% delle pubblicità basate sul comportamento dei “netizen”, si sono di conseguenza impegnate ad assegnare ai consumatori il diritto di «esercitare il controllo su quali dati personali le organizzazioni possano raccogliere e su come usarli», assicurando loro ciò avvenga entro «ragionevoli limiti» e inoltre di trattarli in modo «sicuro e responsabile».
Le politiche sulla privacy, poi, dovranno essere «facilmente comprensibili» dai consumatori e rispettose del «contesto in cui i dati sono forniti». Per facilitarne l’adozione, si legge tra le conclusioni del libro bianco, «il Dipartimento del Commercio predisporrà processi multistakeholder (cioè che coinvolgono più portatori di interessi) per incoraggiare lo sviluppo di codici di condotta applicabili e sensibili al contesto». Se non si tratta di un primo passo verso una responsabilità sociale d’impresa per il digitale, poco ci manca.
Certo, schiacciare un bottone non renderà le proprie navigazioni invisibili. E le aziende, ricorda il Wall Street Journal, potranno comunque collezionarne i dati per «ricerche di marketing» e per «lo sviluppo di prodotti». Senza contare, aggiunge ConsumerReports.org (che dell’intrusione dei browser nelle vite dei cittadini digitali parla dal 1997), che non sarà sufficiente per impedire a Google e Facebook di memorizzare i siti visitati dopo aver effettuato il login ai loro servizi. Un semplice “like”, insomma, è sufficiente per dare a Mark Zuckerberg tutte le informazioni di cui ha bisogno. Ancora, non tutti sono entusiasti dell’accordo.
L’influente giornalista statunitense Jeff Jarvis ha infatti scritto un corsivo al veleno, sull’Huffington Post, in cui invita a non considerarlo come «una vittoria per i consumatori». Costringere i colossi pubblicitari a ottenere il consenso dei cittadini digitali, infatti, potrebbe condurre a un «bombardamento» di richieste di assenso durante la navigazione, a «compagnie più povere» e dunque a «media meno liberi e più pay-wall». Non a caso, nota Jarvis, le spinte più decise verso l’adozione di politiche “do not track” sono venute dal quotidiano di Rupert Murdoch, famoso sostenitore dei modelli di business a pagamento per l’informazione. Senza contare che «non c’è niente di sinistro» nel raccogliere dati degli utenti tramite cookie (file scambiati tra browser e server) a scopi pubblicitari.
Eppure un’organizzazione da sempre attenta ai diritti dei netizen come l’Electronic Frontier Foundation aveva da poco scritto una lettera aperta a Google affinché si decidesse ad abbracciare la filosofia del “do not track”.
Insomma, per gli utenti quella di oggi è una buona o una cattiva notizia? «Siamo sulla buona strada», risponde Bolognini, «ma non è sufficiente, perché non è chiaro come l’utente potrà verificare l’effettivo blocco del tracciamento e delle profilazioni». Del resto, conclude, «la profilazione comportamentale mette in pericolo due beni fondamentali dell’individuo: la sua dignità, per l’enorme mole di dettagli che ne memorizza e per il fatto di assegnare a un “profilo” generico la sua identità (la storia insegna quanto male possano fare le categorizzazioni degli esseri umani), e la sua libertà, per il controllo che comporta sui suoi movimenti e sulle sue scelte».