Quando la scorsa estate, in compagnia di moglie e figlio (lui tredicenne), ho passato qualche giorno a Londra, mi sono imbattuto in uno store Abercrombie. Qualcosa sul fenomeno avevo già letto sui giornali, qualcos’altro avevo visto a Milano. Per farla breve: si fanno (fanno le/gli adolescenti) code sostenute per vedere dei ragazzi superfichi che a torso nudo stazionano appena fuori dall’ingresso, jeans a vita piuttosto bassa, bacino che sembra una serpentina del Giro d’Italia, capello di quel biondo non slavato che ti ammazzeresti pur di averlo e che il forzuto ondula a piacimento del pubblico pagante. Ripeto: credevo che il fenomeno riducesse il suo stagno al comparto adolescenziale, quando Michele e Giovanni, che saremmo io e mio figlio, di fronte a quella statua greca abbiamo visto vacillare anche mamma. La quale, per pochi decimi di secondo, si è staccata dalle nostre vite e ne ha immaginata un’altra. Giovanni e Michele si sono guardati negli occhi, consapevoli del dramma, subito ricomposto impeccabilmente da una sua battuta: “Simpatico, no?”
È per questo che la notizia in prima sul Corriere di oggi non poteva non suscitare la mia curiosità: “Abercrombie, l’errore sul lavoro si paga con dieci flessioni”. Il pezzo raccontava di una mail spedita dal responsabile italiano del reparto “Loss and prevention”, che si occupa di sicurezza, destinata ai commessi. Diceva così: «Da oggi ogni volta che faremo un errore – radio non presidiata, compiti non eseguiti o non completati – dovremo eseguire dieci flessioni. Squat per le donne. Questo ci porterà a un grande risultato: impareremo di più dai nostri errori». Il Carnevale è finito, il primo aprile è lontano, onde per cui dobbiamo prendere per buono questo esercizio muscolare della disciplina.
Questa punizione, venuta alla luce, intanto ha una funzione sociale straordinaria perché riduce in maniera drastica quella distanza tra il mondo che possiamo pensare noi gonzi e ciò che veramente succede all’interno di certe aziende, dove l’immagine, il glam, l’essere costantemente tonici (sai che palle), rappresentano il segno distintivo di un certo modo di vivere e di un certo modo di “vendere” la vita ai propri clienti. È il sipario strappato sull’oscenità del doppio registro, dell’essere bellissimi fuori ma così così dentro, del firmare in bianco la cambiale della felicità.
Ma non c’è solo questo. Andiamo pure più a fondo sulla punizione, sulla tecnica della punizione. Perché un conto è incazzarsi di getto, urlare, sbottare per una cappellata di un collaboratore, un conto è studiare a tavolino una misura apparentemente in linea con la tonicità complessiva – cosa c’è di più vicino, di più assimilabile a un corpo ben modellato che i piegamenti sulle braccia per i maschi e quelli sulle gambe per le donne? – ma che rivela in modo evidente la sua logica punitiva, la sua logica umiliativa.
Qualcuno di voi che ha fatto il militare lo ricorderà e ricorderà quelle forme di “nonnismo” che erano, nello stesso momento, una finta formazione atletica all’interno di una sopraffazione più larga, purtroppo tollerata dai superiori. C’è qualcosa di terribile nell’esibizione “pubblica” di una punizione, si va a colpire la fragilità umana esposta al pubblico ludibrio.
Per cui, bellissimi ragazzi e ragazze di Abercrombie: ribellatevi!