Ci vuole un certo coraggio a caricarsi addosso il malessere di una confessione ossessiva, il dolore e lo scatto repentino di una colpevolezza criminale. Ci vuole coraggio a restituire quel delirio rabbioso e insieme meccanico che la gelosia soffocata innesca per effetto di un tradimento. In scena, una donna sola avvinghiata a una sedia con gli occhi pesti e le labbra rosse come le scarpe. A queste condizioni, con alle spalle un pannello di tappezzeria fiorita e stantia, Sabrina Impacciatore dà voce a un copione tratto dal romanzo È stato così di Natalia Ginzburg.
Un progetto che ha debuttato lo scorso 28 febbraio al Teatro della Tosse di Genova e prosegue lo scambio tra il regista Valerio Binasco e quegli attori della pellicola che sentono di dover abbracciare per la prima volta o di nuovo i banchi teatrali. Così è stato per Romeo e Giulietta con Riccardo Scamarcio o Il catalogo di Jean-Claude Carrière con Isabella Ferrari ed Ennio Fantastichini. Ma questa volta la scelta del testo chiama in causa direttamente l’attualità scomoda di un omicidio consumato tra coniugi che non hanno saputo comunicare né guardarsi davvero.
La scrittura della Ginzburg si fa largo con autorità sublime tra le battute di un monologo interiore che è flusso, frenesia meccanica dettata da occhi bassi o sgranati, da tremori e respiri corti. Un adattamento per voce sola e all’indietro, lungo i fotogrammi della relazione malsana tra un’insegnante di provincia e Alberto, uomo piccolo e più anziano, abituato a fare ritratti istantanei e a non svelarsi mai. I due si conoscono in casa d’altri, lui suona il piano e quella musica resiste come stilema continuo e malinconico nei discorsi di un matrimonio destinato a fallire. Alberto non rinuncia infatti a una storia avviata da tempo: i suoi viaggi, le sue partenze, dopo aver nascosto la rivoltella in una stanza chiusa a chiave, sono tutt’uno con il definirsi un tappo di sughero che galleggia senza conoscere profondità.
E proprio il tradimento semina terrori e attaccamenti morbosi nella solitudine della moglie, aggrappata in poco tempo a una gravidanza che non migliora i rapporti. Quella prima figlia morirà poi per meningite e la notizia della sua fine lontana dalla città, nella nuova periferia di un soggiorno al mare, avviene tanto bruscamente quanto la dichiarazione che apre e chiude le scene con l’annuncio dello sparo dritto negli occhi del marito. I nervi tesi di Sabrina Impacciatore rendono conto di ogni singola oppressione mai rinfacciata, dell’umiliazione accanto a un uomo indifferente e incapace di scegliere. Non si risparmiano dettagli, cenni a una cugina e a un amico di Alberto presenti più come figure evanescenti nel deliquio, ma anche nella ferma coscienza di aver premuto il grilletto per salvarsi. Non basta pensare a un secondo figlio, esaltare le nuove e temporanee attenzioni di un marito che disegna bozzetti di treni lunghi quanto le sue assenze.
E laddove persistono con rispetto ed efficacia drammaturgica quelle infiltrazioni letterarie che raccontano la cipria raggrumata della signora con il kimono viola, o l’impermeabile bianco di Alberto e gli occhi della moglie fissi sulle mani dopo averlo ucciso, si affranca una regia non protetta, ma nuda come lo è un’indagine che non giustifica né condanna, ma prova a comprendere. Così avviene mentre la Impacciatore canticchia una ninna nanna francese, o mentre rivive gli eventi tornando teatralmente sulle stesse frasi e rallentando solo per muovere lo sguardo o spostarsi i capelli malamente aggiustati con una rosa di stoffa.
Quando allora tutto ricomincia da zero e le luci calano su un finale speculare all’inizio, nella testa rimbomba il grido di una donna mai accolta, incastrata in una vendetta mortale e in una stanza priva di finestre. Non serve aver condiviso, ma il ragionevole dubbio che, oltre il sangue di quell’isolamento feroce, resista il diritto a una confessione aperta. «Fra noi e i personaggi che allora inventiamo, che la nostra fantasia illanguidita riesce tuttavia a inventare, nasce un rapporto caldo e umido di lagrime, d’una intimità carnale e soffocante. Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni cosa del mondo, del mondo fattosi pieno di echi e di sussulti e di ombre, a cui ci lega una devota e appassionata pietà». Così scrive Natalia Ginzburg ne Il mio mestiere e di una teoria umana della scrittura, sia essa letteraria o teatrale, ci si augura di ritrovare altre scene simili.
È stato così
di Natalia Ginzburg
regia Valerio Binasco
con Sabrina Impacciatore
luci e scene Laura Benzi
musiche originali Arturo Annacchino
7 – 18 marzo 2012
Teatro Franco Parenti – Via Pier Lombardo, 14 Milano
Sala AcomeA
Orari spettacoli: mart – merc – giov – ven h.20.30; sab h.19.45; dom h.16