PECHINO – Per andare alle Mauritius o a Vanatu i cinesi non devono richiedere nessun visto. Per il resto del mondo, invece, i problemi sono tanti, anche se in via di soluzione. Si tratta di questioni legate alle sviluppo cinese, alla burocrazia internazionale, ad accordi e questioni specificamente nazionali. Ci sono alcuni passaggi, niente affatto scontati. Intanto, sembrerà assurdo, bisogna ottenere un passaporto. Poi il cittadino cinese, all’ambasciata di riferimento, deve dimostrare principalmente una cosa: che una volta terminato il suo viaggio, di piacere o di studio o di affari, se ne tornerà a casa. In gergo si dice che il cittadino cinese deve dimostrare “l’interesse a rientrare”.
E per fare questo quasi tutti i paesi chiedono una mole di carta non proibitiva, ma neanche semplice da ottenere: dall’estratto conto degli ultimi sei mesi, al documento che attesti l’esistenza dell’azienda per la quale si dice di lavorare. Il criterio, infine, con cui ad esempio i paesi europei decidono di dare o meno un visto ad un cittadino cinese, è totalmente arbitrario e discrezionale: non esistono punteggi o limiti sanciti da nessun accordo.
In Europa, va sottolineato, nel 2011 l’Italia ha stracciato tutti per numero di cinesi cui è stato concesso il visto (oltre 240mila), con solo il 3% delle richieste rifiutate. Si tratta di un successo dell’ambasciatore Attilio Massimo Iannucci, che ha aumentato le forze dedite alla gestione dei visti attraverso la crescita del personale dedicato e ad una prossima esternalizzazione ulteriore a quella già esistente: dal 2012 oltre ad un’azienda indiana che da tempo funziona come primo filtro alla richieste di visto dei cinesi, sarà infatti la Fondazione Italia Cina, di cui l’ambasciatore è consigliere “strategico”, a coadiuvare il personale dell’ambasciata nella scelta dei cinesi che potranno venire o meno in Italia a fare affari. Un piccolo conflitto di interessi tutto italiano, anche nel Regno di Mezzo, val bene una massa di cinesi che viene a spendere nel nostro paese. Cinesi, uguale affari, uguale investimenti, uguale soldi. Chi si potrà mai lamentare.
Z. è un ragazzo del Gansu. Suo zio ha messo in piedi un commercio import export tra Spagna e Cina. Il suo hukou – il documento di residenza istituito da Mao negli anni Cinquanta che di fatto creò due distinte categorie di cittadini, quelli rurali e quelli non rurali – è il primo problema di Z. Troppe pratiche, mesi di file, richieste e problematiche per ottenere l’agognato passaporto. Una volta giunto a Pechino, a Z. è capitato un colpo di fortuna. Si è innamorato di una ragazza pechinese. Dopo un anno, i cinesi fanno in fretta, si è sposato e ha ottenuto il documento di residenza della capitale. Via libera. Suo zio è tornato in Cina e insieme ai suoi partner spagnoli ha proceduto alla sua assunzione e alla realizzazione di tutti i documenti necessari per richiedere il visto. Z. che ha studiato per tutto l’anno precedente spagnolo, si sarebbe dovuto recare a Madrid per due settimane, per conoscere i suoi colleghi con cui poi avrebbe dovuto seguire il lavoro direttamente da Pechino. Passati altri mesi, altre file, altri documenti, compreso un estratto conto su cui la sua famiglia ha versato in fretta e furia 2mila euro, altrimenti rischiava di non farcela. Doveva dimostrare che sarebbe tornato indietro. Alla fine ce l’ha fatta. Giunto in Spagna, all’aeroporto di Madrid, mi ha chiamato: era in una piccola stanza, con poliziotti spagnoli che agitavano davanti a lui una lista di documenti, di cui Z. – si è scoperto poco dopo – era sprovvisto. Una dimenticanza dell’ambasciata spagnola, risolta grazie all’invio di modernissimi fax, che hanno lasciato il ragazzo cinese per cinque ore nella stanza in attesa. Z. è riuscito in quella che fino a pochi mesi sembrava una cosa impossibile: uscire dalla Cina. E per molti cinesi uscire dal paese era impensabile, solo fino a pochi anni fa.
Liu Guofu, un professore Beijing Institute of Technology’s School of Law ha spiegato sulla rivista cinese Caijing, che la libertà di movimento è in genere «collegata allo status politico di una nazione, agli interessi economici dei propri cittadini, e a fattori di sicurezza. La regolamentazione delle entrate ed uscite dovrebbe essere bilanciata con gli interessi nazionali e i diritti umani». Prima del 1978, i cinesi non avevano molte possibilità di viaggiare, anzi. Solo i politici, diplomatici o alcuni privilegiati legati al carrozzone del Partito potevano ottenere dalla Cina il via libera a viaggiare all’estero.
Un grande passo verso l’allentamento delle restrizioni arrivò nel novembre 2001, quando il Ministero della Pubblica Sicurezza avviò un progetto pilota che permise ai cittadini cinesi di richiedere – e ottenere – il passaporto salvo dimostrare la necessità del viaggio all’estero. Il progetto pilota venne avviato nella provincia del Guangdong, una delle zone economiche speciali, e poi successivamente esteso alle città di prima e seconda fascia. Per richiedere il passaporto era necessario il documento di identità e il certificato di residenza. Eppure ancora oggi, come sottolinea la rivista Caijing, «i passaporti sono difficili se non impossibili da ottenere per milioni di persone».
Una delle ragioni è che il programma pilota del ministero non include le piccole città: in questo modo molti cittadini che non hanno l’hukou di una grande città devono affrontare complicate procedure burocratiche che non sempre portano ad un risultato positivo. Infine ci sono difficoltà che i giornalisti di Caijing ritengono documentate, per i cittadini cinesi appartenenti ad etnie tibetane e uighure, per motivazioni di discrezionalità degli uffici competenti, aventi a che fare con questioni di politica interna.
Aeroporto di Shanghai
Aereo in volo sopra Pechino
Negli ultimi tempi, i cinesi hanno ricominciato a viaggiare.Lo sviluppo economico ha creato un embrione di classe media che ama andare all’estero, sia per business che per viaggi di piacere. I numeri al solito dicono molto: i dati dell’authority cinese che regola il turismo dimostrano che nel 2011 sono stati 65 milioni i cinesi che sono usciti dal paese, con un tasso di crescita del 13% rispetto all’anno precedente.
Nel complesso, la quota della Cina nel mercato mondiale del turismo dovrebbe raggiungere l’8% entro il 2013, superando il Giappone e diventando il secondo mercato più grande del mondo, secondo un rapporto del Boston Consulting Group. Come ha sottolineato il report, i turisti cinesi tendono a viaggiare in gruppo e fare molti acquisti durante i viaggi all’estero. La spesa dei turisti cinesi in viaggi d’oltremare ha raggiunto i 55 miliardi di dollari nel 2011, frantumando il record del 2010 di 48 miliardi di dollari. Dal 2009, i viaggiatori cinesi sono stati quelli che hanno speso di più dopo i viaggiatori provenienti da Germania, Stati Uniti e Regno Unito. L’Organizzazione Mondiale del Turismo ha stimato che il numero totale di turisti in uscita dalla Cina dovrebbe raggiungere i 100 milioni entro il 2020. E tra le mete preferite, c’è l’Italia.
«In particolare, desidero assicurarle che sotto la mia guida, la rete consolare italiana in Cina ha realizzato una semplificazione delle procedure volte al rilascio del visto che consente ai cittadini che vogliono recarsi in Italia di poter ottenere il visto nel modo più agile possibile tenuto conto della normativa europea in materia. Grazie a tale politica di facilitazione dei visti per i cittadini cinesi e allo sforzo degli Uffici visti operanti in Cina, la rete consolare italiana ha potuto emettere lo scorso anno più di 240,000 visti, circa un quarto dei visti Schengen rilasciati in Cina nel 2011». Così scriveva in una nota l’attuale ambasciatore italiano in Cina, Attilio Massimo Iannucci, sotto la cui guida l’Italia ha aumentato in modo massiccio l’ingresso dei cinesi in Italia, diventando il primo paese europeo per numeri di visti rilasciati.
Le procedure che i cinesi devono seguire per richiedere un visto per l’Italia sono quelle comuni per i paesi Shengen, ma i nostri uffici in Cina hanno cercato di rendere la vita più semplice possibile attraverso una documentazione e una struttura che aiuta il cinese a capire i passi necessari da fare per ottenere il visto. Certamente i documenti non sono pochi: da quelli di identità all’estratto conto, da tre a sei mesi, che devono comprovare le possibilità economiche di andare e tornare.
L’ambasciata italiana ha potenziato il proprio servizio attraverso l’aumento del personale dedicato e attraverso l’esternalizzazione delle procedure. Sia per i visti di gruppo, sia per quelli singoli, mettendo a disposizione dei cinesi anche uffici che rispondono al telefono (entro due squilli) o di persona (con meno di venti minuti di coda per l’utente). Solo raramente, secondo quanto dichiarato dall’ambasciata, si procede a colloqui individuali per chiarire se ci siano o meno problematiche legate alla possibilità di rilascio del visto. Spesso i rifiuti avvengono per mancanze burocratiche. L’Italia ha inoltre istituito dei visti di 5 anni per i cinesi che dimostrino di investire in modo ampio in Italia.
Tra poco comincerà le proprie attività riguardanti i visti anche la Fondazione Italia Cina, che affiancherà un’azienda indiana cui già in precedenza l’ambasciata italiana affidava un primo compito di “filtro” delle richieste. La Fondazione Italia Cina è un’organizzazione senza fini di lucro, «costituita a Milano l’11 novembre 2003, voluta e creata da Cesare Romiti per migliorare l’immagine e le modalità della presenza dell’Italia in Cina e per realizzare un diverso posizionamento strategico-commerciale». Tra i soci della Fondazione ci sono molte aziende italiane e all’interno del suo Comitato Strategico c’è anche l’attuale ambasciatore italiano in Cina, Attilio Massimo Iannucci.
Alcune settimane fa, di fronte alla possibilità che gli ambasciatori italiani che hanno raggiunto il 65° anno di età possano essere richiamati a casa, Cesare Romiti ha scritto un’accorata lettera al Corriere della Sera in cui spiegava gli errori di tale eventuale provvedimento. Iannucci infatti, se il provvedimento dovesse essere approvato, dovrebbe tornare in Italia, dopo un solo anno in Cina e dopo l’ottimo lavoro svolto riguardo i visti.
Insomma, proprio dopo aver affidato alla Fondazione il filtro sui visti cinesi, il 27 febbraio 2012 Cesare Romiti ha scritto sul Corriere della Sera che «sono sotto gli occhi di tutti gli importanti risultati conseguiti nell’ultimo anno con il crescente numero di cinesi in Italia sia per motivi commerciali, sia turistici. Se dovesse essere applicata la nuova norma, il suo mandato (dell’ambasciatore ndr) si interromperebbe nel bel mezzo dell’attuazione del suo programma con negative ripercussioni facilmente immaginabili». Immaginabili forse per la Fondazione, dato che i meriti indiscussi dell’attuale ambasciatore per quanto riguarda l’organizzazione dell’ambasciata per rilasciare i visti, non si vede perché dovrebbero essere messi in dubbio da un potenziale successore. Il successo della politica di semplificazione italiana, infatti, sta dando ottimi risultati che stanno favorendo il nostro paese rispetto a paesi storicamente prescelti dai cinesi, come Francia e Germania. Perché eventualmente tornare indietro?
Per altro come e con quali modalità la Fondazione attuerà il suo ruolo di “filtro” attualmente non è dato sapere, dato che alla richiesta di spiegazioni inviate via mail all’ufficio stampa, la Fondazione ha risposto che eventuali informazioni saranno concesse solo nel momento in cui l’attività inizierà ufficialmente.