Se fossi a Palazzo Chigi all’incontro tra governo Monti e Fiat, chiederei se non fose il caso che Torino vendesse prima che sia troppo tardi Alfa Romeo a Volkswagen. Perché la sovracapacità europea non dà scampo agli stabilimenti italiani del gruppo. Perché Chrysler-Fiat è giustamente di chi ha messo i soldi, cioè americana. Perché Alfa non ha possibilità di salire a 300mila unità vendute come da sempre vanamente promesso da Fiat che non vi ha investito né può. Perché a Chrysler i denari servono per crescere in Cina, India e Russia, dove non c’è. E perché l’Italia deve aprirsi prima che mai a stabilimenti di montaggio di altri gruppi, meglio se leader mondiali come Volkswagen. Questi sono i numeri alla base del ragionamento. Altro che polemiche sulla Fiom.
Il Salone di Ginevra si avvia alla chiusura con una divergenza netta che non accenna diminuire, tra le tre macroaree mondiali dell’auto. Gli Stati Uniti restano lontanissimi dalla possibilità di tornare il primo mercato al mondo, ma hanno chiuso il 2011 segnando per la vendita di auto nuove un secco più 10% sull’anno precedente, con 12,8 milioni di unità e il ritorno al profitto non solo per Ford e GM ma anche per Chrysler. La Cina resta e resterà per anni l’area di traino planetario, anche se con i suoi 14,1 milioni di unità nuove vendute ha sensibilmente visto diminuire il suo tasso di crescita, solo più 5,1% sull’anno precedente. Poco più di un soffio rispetto al più 33% del 2010. Ma in ogni caso per i grandi players mondiali è lì la grande gara nel prossimo futuro per la profittabilità su vasta scala e soprattutto nel settore premium, dove si guadagna di più: chi è rimasto indietro in Cina, è come se volesse correre con una palla al piede. Poi c’è l’Europa, la cui situazione è molto ma molto preoccupante.
«Nessun costruttore ha fatto un solo euro di profitti nel 2011 sul mercato europeo», ha detto Sergio Marchionne. Il capo di Fiat-Chrysler sa bene di poter sparare a pallettoni perché le case non danno il rendiconto di profittabilità per aree geografiche e singolo Paese, ma consolidato. In realtà, uno studio comparato degli andamenti e dei bilanci 2011 porta alla conclusione che non sia stato così. Ma certo il mercato europeo appare come un malato grave al quale non si applicano terapie. L’America di Barack Obama di fronte alla crisi del 2008 e 2009 ha reagito come avviene in quel Paese di fronte alle grandi crisi. Si mette mano anche al portafoglio pubblico per settori strategici, e naturalmente l’auto per un presidente dell’area Chicago-Detroit lo era eccome. Con l’obiettivo di consentire alle imprese finite in sovracapacità di razionalizzarsi in profondità per tornare il più presto possibile all’utile, espellendo manodopera e abbassandone costi – e retribuzioni – in cambio della tutela dei fondi previdenziali e della restituzione a breve allo Stato del capitale fornito dal contribuente. È così che GM e Chrysler sono tornate a margini positivi, anche se la sovracapacità tagliata è stata nell’ordine del 22 e del 35%, e sono state nell’ordine del 35% in meno sui neoassunti le concessioni sindacali a paghe più basse, rispetto a quelle degli stessi stabilimenti giapponesi in Usa. Tutte cose impensabili, per i governi e i sindacati europei. Ma con quali conseguenze?
Eccole, le conseguenze, ci stiamo in mezzo e ci resteremo per anni. La domanda europea si contrae dal 2008. E resta declinante. I 15,7 milioni di unità nuove vendute di quell’anno sono diventati 14,7 nel 2008 e 14,5 nel 2009, 13,7 nel 2010 e 13,5 nel 2011. Per il 2012, le stime di banche d’affari e specialisti dell’auto erano e restano apertissime, perché dipendendevano e dipendono dall’evoluzione della crisi dell’eurodebito, e dal morso sul reddito disponibile di famiglie e imprese effettuato da Stati assettati di nuove entrate per rientrare al più presto nella convergenza di bilancio pubblico fissata dal fiscal compact. Si passava da un meno 7% ulteriore di vendite in caso di default greco “incontrollato”, e possiamo dunque sperare che questa previsione sia troppo pessimistica perché il default c’è stato ma secondo una procedura ordinata. E via via salendo di scenario in scenario meno europessimista, fino alla più ottimistica stima che è comunque ferma a un meno 2% sul 2011.
Come hanno reagito le imprese e i governi? L’hanno capita, e hanno tentato un governo serio della riduzione della sovracapacità, controllandone gli effetti sociali ma consentendo alle imprese di tornare ai profitti? Assolutamente no. A fronte di un euromercato dell’auto che al più sarà di poco sopra i 13 milioni di unità, i 111 stabilimenti automobilistici attuali delle diverse case nell’Europa larga – Turchia e Russia compresa – hanno una capacità installata intorno ai 22,8 milioni di unità. Vi rendete conto di che cosa significa, in termini di distruzione di valore, una sovracapacità che resta più vicina al 40% che al 35%, a 5 anni dall’inizio della crisi, e quando a seconda dei segmenti la media statistica è che per fare profitti bisogna stare intorno all’80% almeno di utilizzo degli impianti? Nel 2011 e dal 2009, hanno sin qui chiuso due soli stabilimenti: Termini Imerese della Fiat, e Anversa della Opel. Tra l’anno in corso e il 2013, altre tre chiusure sono annunciate, due in Svezia di Saab e Volvo, una di Mitsubishi in Belgio. Ma, a fronte della domanda in ulteriore calo e dell’impossibilità per i governi di pensare a incentivi pubblici visti i tagli ai deficit da apportare, la conseguenza è che nel 2012, 2013 e 2014 a rischiare di più sono i players dell’auto che hanno tre caratteristiche: dipendono troppo dal mercato europeo in panne, non hanno alle viste rotazioni significative di insediamento in Cina, hanno condizioni finanziarie e patrimoniali tali da averne compromesso la capacità d’investimento.
Se andiamo a vedere chi dipende di più dal mercato europeo, la Opel di Gm addirittura sta all’82% (si capisce perché la stima sia di aver perso 13 miliardi di dollari dagli anni Novanta, ed ecco perché il governo tedesco ha detto no più volte ai tentativi di Gm di liberarsene: è una ferita aperta per l’unico concorrente mondiale di Volkswagen in Cina). Poi viene Citroen al 62%, Renault al 52%, Peugeot al 48% (i due marchi sommati di Psa sono sopra Renault, ed ecco da dove nasce l’alleanza con GM il cui fine è salvare il salvabile in una razionalizzazione europea necessaria sia ai francesi che agli americani in Germania). Poi viene Fiat, al 48% grazie a Chrysler che ne ha spostato il bacino prioritario in America. Poi Volkswagen, la cui ascesa come secondo gruppo mondiale si spiega non solo per il successo in Cina – dove presidia il 15% dell’intero mercato con 2,2 milioni di unità vendute dai suoi 10 brands, cioè il doppio di quanto vende in Germania tanto che dei 67 miliardi d’investimento complessivo del prossimo piano quadriennale, 15 saranno solo in Cina per altri 4 stabilimenti nuovi nelle aree cinesi ancora non presidiate – ma anche per la sua bassa dipendenza dall’Europa in crisi. Questo spiega perché, a differenza di quanto affermato da Marchionne, VW ha fato profitti anche in Europa, visto che la sua capacità utilizzata nel 2011 è stata nei diversi stabilimenti europei tra l’85 e il 90%, rispetto al 60% di PSA, Renault e Opel, e a meno del 50% per quanto riguarda Fiat (sono gli stabilimenti italiani, quelli a più basso regime, ma sta scendendo anche l’utilizzo di quello polacco, i cui utili per anni insieme a quelli brasiliani hanno consentito di tenere aperti negli ultimi 15 anni gli stabilimenti italiani, anche se questo nel nostro Paese quasi nessuno se lo vuole sentir dire).
Il mercato italiano 2012, visto il suo disastroso inizio dovuto a tasse crescenti e benzina ai record (anche qui per via dello Stato assetato), è previsto nel 2012 a un declino ulteriore del 9%, verso 1,6 milioni di unità: quanto si è venduto nel 1984, per avere un’idea di come stiamo messi. I 2,5 milioni di unità nuove vendute nel 2007 resteranno un miraggio per anni. Per Fiat, che ha saltato da Ghidella in poi troppi cicli di investimento-utile-reinvestimento, un bel guaio. Ecco da dove nasce l’intervista di Marchionne al Corriere della sera in cui è stata annunciata la chiusura in Italia, nel prossimo biennio, di almeno altri due stabilimenti Fiat, a cominciare da Mirafiori, a meno che il mercato non si riprenda – improbabilissimo – o che vi si produca per esportare negli Usa – impossibile, visti i modelli Fiat, oltre al fatto che a quasi nessuno (tranne Volkswagen superintegrata) riesce ormai esser profittevole in un delle tre macroaree mondiali se non si produce in loco, visti i costi di trasporto e i dazi all’import.
Certo, visto che è il mercato continentale ad essere in crisi nera, avrebbe dovuto essere europea la risposta politica per consentire alle case di ristrutturare rapidamente. Ma è impossibile, perché ogni governo nazionale stolidamente chiede che i gruppi chiudano altrove, la propria sovracapacità (vedremo che cosa avviene in Francia dopo le presidenziali di aprile-maggio), e perché i tedeschi hanno duramente e fieramente ristrutturato i propri gruppi negli anni 2002-2005 con reciproche concessioni tra imprese e sindacati, e oggi la loro vittoria avviene proprio a spese dei concorrenti europei.
La conseguenza è forse amara, ma forse no. L’Italia dovrebbe aver capito da questi numeri, se avesse voglia di guardarli, che le polemiche Fiat-Fiom lasciano ormai il tempo che trovano. Chrysler-Fiat è il geniale centauro che da due fallimenti solo a un manager “estero” come Marchionne poteva riuscire in America, nel senso che se il manager fosse stato “italiano” col cavolo che Obanma si sarebbe fidato. Ma il centauro è e sarà americano, e di qui si vedrà se riuscirà a perdere il troppo terreno che ha da guadagnare in Cina, India e Russia. L’Italia dovrebbe fare come il Regno Unito ai tempi della Thatcher. Rinunciare ad avere case proprie ma aprirsi al maggior numero di stabilimenti di montaggio del più elevato numero di case mondiali. Fossi stato io, all’incontro a Palazzo Chigi tra Monti e la Fiat, avrei chiesto a Torino di considerare con grande attenzione la vendita di Alfa Romeo a Volskwagen, per spalancare le porte dell’Italia e della sua filiera automotive – che resta d’eccellenza – al più dinamico gruppo mondiale.
*Articolo originariamente apparso su Chicago Blog