Dmtri Vladimirovic Nabokov
(10 maggio 1934 – 22 febbraio 2012)
“Dima” Nabokov, figlio di Vladimir, ha avuto la sorte di essere il figlio unico di uno dei più grandi scrittori cosmopoliti del Novecento, di nascere a Berlino perché suo padre era un fuggitivo volontario dalla Russia bolscevica, di emigrare, a tre anni, con i genitori dalla capitale del nazismo perché sua madre tedesca era anche ebrea, e di vivere una settantina d’anni in vari posti americani e svizzeri. Vivere bene, con una laurea ad Harvard (Storia e Letteratura), un diploma di canto (basso), e un cognome che aiutava e poteva tarpare: a New York, Boston, a Palm Beach in Florida, o nel Cantone di Vaud – a Montreux e Vevey, dove è morto in ospedale per un’infezione – era “il figlio di Nabokov”. Non gli restava che diversificarsi, ma senza ribellioni.
Anzi, è diventato l’altro Nabokov – minore, certo – coltivando un’intensa relazione col padre, oltre che dedicandosi ai suoi libri e alla sua memoria. Vladimir ha scritto in russo e in inglese (“Lolita”, per esempio), e Dima traduceva molto di quello che il padre lasciava lì o non aveva avuto il tempo di far passare in altre lingue. Per esempio, un racconto incompiuto – The original of Laura – o una collezione di brevi novelle del primo periodo, tutte scritte in russo: Tyrant Destroyed, e The Gift. Tutti e due, padre e figlio, erano pluriglotti, emigrati nel mondo, e capaci di esiliarsi piacevolmente in diverse passioni.
Vladimir, sofisticato e unico anche in questo, andava in cerca di farfalle, e una delle ultime chiacchierate col figlio – prima di morire, nel 1977 – spaziava sul quel tema entomologico, e sulla bellezza di una valle addossata alla loro casa di Montreux. Dima, non essendo Vladimir, cioè lo scrittore di quel livello, scopriva però di avere un bel timbro di voce impostata, e di amare molto la velocità, in macchina.
Un’eredità d’arte, e una passione un po’ da café society. Si può diventare qualcuno anche correndo e cantando. Oltre a tutto presentandosi con quel patronimico. Dima non era male come basso: a Milano, alla Scala, nel 1959 (periodo più che d’oro, quello dell’ultima Callas ai massimi) faceva il suo training, e pochi anni dopo, a Reggio Emilia, si trovava a cantare nella Bohéme, di Puccini, interpretando il ruolo di Colline. Ai suoi fianchi – negli atti dove sono insieme – Rodolfo cantava col registro tenorile del primo Pavarotti (già molto riconoscibile).
Dima avrebbe mantenuto una carriera vocale fino al 1982, in particolare a Barcellona, e con una compagna di scena come Monserrat Caballé. Come lei – bellissima voce e presenza a dir poco massiccia – il giovane Nabokov si faceva notare: altissimo, una faccia un po’ playboy e un po’ Sigfrido, con il sorriso vagamente schifato del padre, ma più tirato.
Le macchine da corsa, con relative gare professionali, sono state il suo terzo destino: interrotto, intorno ai 40 anni, per un incidente che gli lascerà qualche stabile ammaccatura.
Era anche un arrampicatore, nel senso più puro, non sociologico: passeggiate in montagna, anche scoscese, con molta energia e resistenza. Anche Vladimir era così: l’aria svizzera o del Massachusetts, con relativi boschi, invitava alla ricerca dei lepidotteri tanto ammirati.
Si potrebbe dire che a 77 anni sia morto anche l’unico figlio di “Lolita”: una bella storia virtuale, data l’età della protagonista di quel magnifico romanzo. E’accertata invece l’ultima fatica di Dmitri Nabokov, in memoria del padre, dei suoi libri, e delle sue visioni della vita: la cura di un volume di lettere e di un racconto non finito. Cioè, come trasformare un’eredità complessa in un patrimonio destinato a tutti.
Elhadj Ibrahim Oumarou
(1932 o 1938 – 21 febbraio 2012)
Ha regnato 52 anni (otto in meno di Elisabetta II, tuttora in piena forma) il “Sultan dell’Air” della regione di Agadez, nel settentrione dello Stato del Niger. Un sovrano tuareg popolarissimo, «discreto e rispettato, e grande artigiano della pace». È morto all’ospedale di Niamey, la capitale, dove era stato ricoverato per curarsi «da una lunga malattia». Non stabilita con precisione la sua età: aveva 74 o 80 anni.
Ma non ha molta importanza: faceva parte di quel gruppo, non così risicato, di re africani che, dalla parte occidentale fino al Sudafrica, hanno mantenuto un certo potere, o molto prestigio, sui loro territori tradizionali. Come dei governatori interni alle repubbliche postcoloniali, ma con un’esperienza plurisecolare, una specie di saggezza arbitrale utilizzata, ogni tanto, nel pieno di guerre civili, o massacri interetnici. In pratica, nelle tragedie, ininterrotte, di oltre mezzo secolo di storia africana.
Il Niger – ex colonia francese – è ricchissimo d’uranio, soprattutto al Nord, e ha da sempre problemi di vicinato, o di confine, con il Mali e con la Libia. In più, negli ultimi vent’anni, una parte della sua popolazione tuareg ha preso le armi contro il governo centrale in due ribellioni, dal 1991 al 2009. Una guerra non proprio di secessione, ma per un maggior controllo regionale di quel prezioso settentrione. Dove, fra l’altro, da due anni, la cellula locale di Al-Qaeda tiene in ostaggio quattro tecnici francesi, impiegati dalle società Areva e Satom.
Dal 2004, il Sultano dell’Aria è intervenuto, come un “rex ex machina”, per convincere i suoi a mollare le armi, e il governo di Niamey a trattare. Lo ha fatto mettendo in piedi una struttura – il forum “Paix et developpement” (proprio nella città mineraria di Arlit) – e facendosi sentire, come il più autorevole, nel Conseil National de Dialogue Politique. Un organismo ufficiale, tutto scritto con le maiuscole, che in effetti sta tenendo, finora, ferme le pedine più bellicose.
In alcuni interventi pubblici, “Sua Maestà Elhadj Omumarou” (è il titolo che gli spetta) ha avuto una certa originalità di argomentazioni, come un politico ricco di immagini in presa diretta: «Ringraziamo i nostri bambini che hanno capito che il Niger appartiene a tutti, e che siamo gli stessi fra di noi». Mica male, fare appello all’infanzia (cioè al futuro) e a un principio di eguaglianza quasi assoluta. O di riconoscenza, in ogni senso. Ma anche questione di know-how: la sua famiglia regna su quelle parti dal XV secolo. Dalle nostre, si era a ridosso del Rinascimento.
Lucio Dalla
(4 marzo 1943 – 1°marzo 2012)
Fino a una ventina d’anni fa, in qualche espressione di scorcio, poteva ricordare Giuseppe Verdi non ancora bianco. A parte i capelli, che Verdi aveva mantenuto fino alla fine. Qualche mese fa, in tarda estate, qualcuno lo ha avvicinato a Mozart e a Beethoven. Non pensando al fisico.
L’anno scorso, in una bella casa di campagna a circa un’ora di macchina da Milano –direzione nord, verso la Brianza non ancora devastata dalle villine – una cordiale signora milanese festeggiava i suoi 60 anni con una festa prevista dall’imbrunire in avanti. Tornare indietro, di notte, era altrettanto previsto, anche se le ore, in circostanze come quella, in genere si perdono. A meno che la stanchezza, a un certo punto, non si annunci come uno stato d’animo inderogabile. Il tramonto era originale, aveva piovuto, e il cielo disegnava, riposato, ben due arcobaleni.
La casa riceveva circa duecento invitati, il grande parco li sparpagliava educati e moderatamente euforici. Come succede fra persone e conoscenze che si riconoscono dopo lassi di tempo abbastanza lunghi, a volte vissuti all’estero (Londra, Parigi, New York, le capitali delle seconde vite), a volte orgogliosamente incistati nelle proprie radici. In quel caso, quasi tutti gli invitati, erano milanesi: di quel tipo di milanesi sobri, abituati all’Engadina d’inverno e a Paraggi nel sole di giugno, e ai colori moderati (beige, blu marine, penicillina) del loro vestire mai fuori registro.
Una serata con camerieri (tutti uomini) affittati ed extraeuropei, con un buffet naturalmente di buon gusto (in ogni senso), e dove i sentimenti e i caratteri circolanti erano variamente affettuosi, o, come minimo, curiosi, o incuriositi. La padrona di casa e suo marito – un uomo cordiale, in blazer – davano un tono ripetuto a specchio in tutti i loro amici, e conoscenti, lì convocati.
Un tendone bianco, un lungo e largo rettangolo coperto che violava il verde del parco, era la risorsa canonica messa in piedi per proteggere l’insieme da un’eventuale recrudescenza dell’acqua dal cielo. In fondo al parco, un palco: per la musica, l’orchestra, il complesso, un cantante, o una cantante, da far apparire, a sorpresa, per arricchire di più toni quel tono. O semplicemente, per far ballare nottetempo, una civilizzata tribù di cinquanta-sessantenni (o anche oltre) incline a un’eccitata nostalgia verso le musiche “leggere” dei loro tempi, nonché abituata alla Scala, al Quartetto, e, nei casi più universali, al Mozarteum di Salisburgo, o al tutto Wagner di Bayreuth.
L’inizio delle musiche, verso le nove, distraeva l’insieme, lo faceva in parte far folla sotto il palco, scioglieva le coppie o i trii occasionali, e i rispettivi colpi d’occhio sul lavoro del Tempo: sulle fronti spianate di capelli, sui solchi dell’età adulta, sul biancore o l’ingrigimento delle teste. Da quella metà strumentale e vocale del parco – protetta, a maggior ragione – la musica veniva immediatamente riconosciuta: che meraviglia, erano tutte canzoni di Lucio Dalla. La folla riconosceva “4/3/1943”, “Pomeriggio in ufficio”, “Zingaro”, “Le parole incrociate”, e via cantando. La folla si preparava a tornare in sé: un sé con trent’anni meno, quando ancora la tranquillità dei colori beige, blu marine, e penicillina era un oggetto, o programma esistenziale procrastinabile.
Chi stava lontano dal palco, ancora sotto il tendone, veniva gradatamente attratto, come un topo del pifferaio di Hamelin. Si alzava, si avvicinava, ascoltava, riconosceva. Poteva fermarsi a metà, perché la barriera umana a ridosso dei musicisti funzionava come una diga eccitata.
Un gentiluomo, uno dei più eleganti e acuti della serata, non procedeva più di tanto, perché era cieco da molti anni: un incidente di caccia. Ma, più che incuriosito, chiedeva a un amico che lo guidava come un golden retriever: «Questo cantante fa impressione. Sembra Lucio Dalla». L’amico lo confermava: «Hai ragione. E lo riproduce molto bene. Se si pensa a quanto l’originale sembra irripetibile».
L’originale sembrava lontano, o presente se non come un effetto eco. O comunque come l’autore di quei suoni e quei testi che dopo circa due ore si interrompevano, perché, semplicemente, la musica era finita. Il sigillo veniva fatto con un’affettuoso ringraziamento alla padrona di casa, con ovvi auguri per il suo anniversario. «Tanti auguri, Anna Maria. Tanti auguri a te». Parlava il cantante, dal palco. Parlava Lucio Dalla, perché era lui, e non un suo multiplo. Una coppia avventizia, allontanandosi, non particolarmente stupefatta, osservava: «Fantastica Anna Maria. Ha fatto come si usava più di due secoli fa, a Vienna. È come se avesse invitato a corte Mozart, o Haydn, o Beethoven…».