John (Ivan) Demjanjuk
(3 aprile 1920 – 17 marzo 2012)
Cittadino americano, ex soldato sovietico-ucraino, già chiamato “il boia di Treblinka”. Un resto mortifero dell’ultima guerra, e del collaborazionismo con i nazisti nello sterminio degli ebrei d’Europa. Ma anche un imputato a due riprese in due tribunali diversi, negli ultimi trent’anni. E un caso giudiziario di un accusato di sterminio di massa (circa 28 mila ebrei nel campo polacco di Sobibor, 1943) scampato al capestro (in Israele) per un dubbio, ritenuto ragionevole, sulla sua identità come assassino. E poi un condannato da un tribunale di Monaco di Baviera – a 5 anni di prigione, maggio 2011 – per associazione volontaria con i nazisti nei campi di Sobibor e Treblinka. E, infine, un condonato per ragioni d’età e di salute. È morto in una casa di riposo bavarese della cittadina di Bad Feilnbach. A quasi 92 anni.
Un dileguarsi dall’Europa devastata, un nuovo Paese-rifugio, un cambio di nome, una moglie, una famiglia, un lavoro anche qualificato, un’esistenza indistinguibile da tante altre, e riparata. Da tutte quelle tappe. Quando, nei primi anni Ottanta, il governo israeliano otteneva dagli Stati Uniti l’estradizione di John Demjanjuk – di Cleveland, Ohio, cittadino americano dal 1958, operaio in una fabbrica d’automobili, sposato con tre figli – era chiaro come tutti quei passaggi corrispondessero a uno schema ripetuto, con personali variazioni, e ripetibile: quello degli ex nazisti, o loro volontari collaboratori, che ce l’avevano fatta a scomparire, rifatti in un altro passaporto e in un’altra vita. Soprattutto nelle Americhe.
Uno dopo l’altro, dal caso-Eichmann (1961), si presentavano, alla sbarra, per quello che erano rimasti nella loro formazione: criminali in serie, travestiti dalle loro nuove identità e da una fila di auto-giustificazioni inascoltabili. E di una mezza età in genere ben conservata. Quando Ivan-John Demjanjuk, davanti alla corte israeliana che lo giudicava, si vedeva riconoscere – da 11 testimoni scampati, un’ex SS, e qualche foto di lui giovane – come “Ivan il terribile”, pensò di contestare la sua stessa identità in quel passato.
Diversamente da Eichmann, e poi da Klaus Barbie (detto “il boia di Lione”), giocava sul dubbio che, nell’incertezza, può far assolvere. Non era lui – secondo lui – il torturatore collaborante di Treblinka, Majdanek e Sobibor, ma un altro ucraino di nome Marchenko. Già citato, durante vari giudizi, nelle corti sovietiche dell’immediato dopoguerra. Poteva non essere lui, Demjanjuk: nel dubbio –improbabile ma reale – la Corte suprema d’Israele (esattamente cinque suoi magistrati) lo salvava, assolto, rimandandolo, cittadino libero, negli Stati Uniti. Nel 1988: un lungo processo, dal 1981.
Ventun anni dopo, la seconda esistenza americana (ormai pubblica, ma relativamente tranquilla) di Ivan-John veniva interrotta da nuovi documenti che lo accusavano, raccolti dai magistrati tedeschi: il capo d’accusa era la collaborazione nello sterminio di circa 28 mila ebrei a Sobibor, sostenuto da un carta d’identità che lo classificava come SS, una serie di ordini scritti che gli assegnavano il ruolo di guardia del campo, e una serie di testimonianze di parenti delle vittime uccise in quello stesso campo (250 mila, e nessun “salvato”).
Dopo il verdetto, e oggi, dopo la sua morte di vecchiaia – in un luogo per vecchi che livella, in nome del tempo, ogni tipo di biografia – il centro della vita di Ivan Demjanjuk è stato chiarito da due commenti, oltre ogni dubbio ragionato. David van Huiden – padre, madre, e sorella uccisi a Sobibor – ha sintetizzato: «Che si sia preso tre, quattro, o cinque anni di galera, non ha molta importanza. Era lui, ha collaborato, volontariamente». Dalia Donner, che presiedeva il tribunale israeliano, durante il primo processo, ha chiarito alla radio: «Tutti i testimoni convocati lo avevano riconosciuto, era impossibile sbagliarsi. E la sua fisionomia non era molto cambiata».
Il giovane Ivan Demjanjuk, soprannominato “Ivan il Terribile”
Il vecchio Demjanjuk
Siaosi George Tupou V
(4 maggio 1948 – 18 marzo 2012)
A duemila chilometri a Nord-Est della Nuova Zelanda, il regno di Tonga, popolato da 115 mila sudditi, sta imparando, attraverso la propria monarchia, un cammino verso la democrazia. Qualcosa di simile, quasi tre secoli dopo e in mezzo all’Oceano Pacifico, ai passi dell’Inghilterra dai re assoluti al sistema costituzionale. D’altronde, a Tonga, gli ex colonizzatori inglesi non hanno lasciato brutte memorie.
Può succedere che il clima del passato imperiale europeo riviva, a scampoli di cerimonie, simboli e divise, nelle ex colonie. Siaosi George V, re di Tonga per pochi anni – dal 2006 – aveva un debole per i Windsor: le foto della sua incoronazione sembrano, in tutto, una citazione dei riti di Westminster. La sua famiglia (più o meno come quella di Elisabetta II) è sul trono dalla fine del XVII secolo. E lui è morto in un ospedale di Hong Kong, già punta d’oro del dominio britannico in Estremo Oriente. E poi si chiamava anche “George”, come i tre primi sovrani inglesi della dinastia Hannover (anglicizzata, durante la Prima guerra mondiale, in Windsor).
È potuto capitare, con lui, che dalla vecchia Inghilterra si sia deciso di prendere anche un po’ di Storia: esattamente quel costruttivo punto di rottura che, nel Seicento (e con una guerra civile) ha portato gli inglesi – e poi gli scozzesi, e parte degli irlandesi – a ritrovarsi, comodi, in un Parlamento funzionante e in una monarchia costituzionale per antonomasia.
È successo, quattro anni fa, che i sudditi dell’arcipelago di Tonga si siano rivoltati (otto morti, qualche saccheggio, e la devastazione del centro degli affari, a Nuku’alofa) chiedendo, in maggioranza, una specie di “Bill of Rights”, valido per tutti. Con conseguenti elezioni, mantenimento rispettoso della Corona, ma con dei limiti “moderni”. King George – un po’ come William III d’Orange in Inghilterra, nel 1688 – l’ha capito, ed è passato all’azione di autoriforma.
Verrà ricordato per aver convocato, per la prima volta, gli elettori, nel 2010: 89 per cento di affluenza. Per aver consegnato, finalmente, il potere legislativo a un’assemblea, e quello esecutivo al partito vincente. Che ha un nome da conciliazione nazionale e da turismo distensivo: Friendly Islands, con 13 seggi su 26. Il resto dei deputati è risultato così ripartito: quattro indipendenti, e nove ai nobili del regno. Un insieme, allegro e stringato, di Comuni e di Lord.
Prima, la Camera era solo Alta: tutti Lord, di nomina regia. E lui, il re, che nominava il Primo ministro e il governo. Come ai tempi dei Tudor e degli Stuart. A Londra.
Ritratto di Re Giorgio V, del Regno Unito
La mise del re di Tonga