Se ne sono andati

Se ne sono andati

Lucia Mannucci Savona

(18 maggio 1920 – 7 marzo 2012)

Quasi 70 anni di canto, di scena, e di varietà per questa musicista (nata a Bologna, ma poi, per sempre, di Milano) capace di tutto e con grazia infinita: una voce da soprano leggerissimo, da operetta, e da folk, una cantante-attrice capace di essere, da sola, l’altra metà di un ensemble maschile (tre uomini, tre voci, più lei) amatissimo dall’Italia intera, e che si divertiva da pazzi cantando insieme. Il Quartetto Cetra, nato nel 1941 e sciolto nel 1988 per la morte di uno dei suoi creatori – Giovanni Giacobetti, detto “Tata” – è stato una trovata spettacolare, un piacere d’ascolto, una risorsa d’ironia.

Lucia Mannucci era una donna molto carina e naturalmente spiritosa: la si poteva immaginare aggiunta al cast di un film di Frank Capra o di Billy Wilder. Era una musicista vera, e con passioni centrate: il canto popolare, per esempio. Ricercato, studiato, raccolto insieme al marito Virgilio Antonio Savona, il fondatore dei Cetra: di Palermo, pianista, la voce nasale dei Cetra e con un naso che si affermava da solo. E l’unico con gli occhiali. Il piacere della cultura, e dell’impegno – anche politico – era in lui quasi fisiognomico: sarebbe potuto nascere in una famiglia “leftist” dell’Upper East Side di New York.

Anche gli altri due erano musicisti, e con un loro strumento di base: Felice Chiusano – di Fondi, provincia di Latina – l’unico calvo del gruppo (registro vocale grave), era chitarrista, mentre Tata Giacobetti, di Roma – il più bello, il più attore tipo Roberto Villa, con brillantina e onde “curly” in testa – aveva iniziato con il contrabbasso. Diventando poi, insieme a Savona, il paroliere dei Cetra.

A sentirli cantare, allora, ci si divertiva allo stato puro e immediato. A ripensarli oggi, con l’ultima e l’unica – Lucia – appena morta a 91 anni, viene in mente un pezzo di sociologia italiana che se ne è andata. Fatto, insieme, di rara ironia, e di parodia. Su svariati “tipi” umani e nazionali, e a vari livelli di acume. La rivista, il cabaret, il varietà, lo sketch, i monologhi da “entertainer”, la canzone, erano le forme, o un bel po’ di ritratti dei tempi, o facevano scoprire dei geni (donne e uomini) sociologici oltre che di spettacolo: Franca Valeri e Paolo Poli, tanto per nominare i primi in assoluto (ancora oggi). I Cetra, e Lucia Mannucci in particolare, rientravano nell’aria nuova, anche se erano nati all’estremo degli anni cupi.

Qui, più che per i loro lanci televisivi (Studio Uno, per esempio), o per i loro titoli più popolari (Nella vecchia fattoria, in testa) vengono in mente, riascoltati, per come hanno parodiato uno storico faccia a faccia, o un fianco a fianco, che ancora tiene: l’italiano, o l’italiana, e l’America.
 

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Una loro canzone – forse la più spiritosa – si chiama Baciami all’italiana, e lei, Lucia, ha una parte fondamentale. È la potenziale preda, l’intramontabile americanina placcata dai maschi della penisola. Che, in questo caso, sono le tre voci, variate su un romanesco educatissimo, dei Cetra.

Loro cantano, un po’ sul filo, uno dopo l’altro: «È molto interessante ogni donna quaggiù a New York / È molto affascinante ogni donna quaggiù a New York / Quella è la più elegante, la più classica di New York / La fermo io! / La fermo io! / La fermo io!/ Signorina, per favore, senta un po’/ da impeccabile italiano l’amerò…

E poi variano a tre con un «du-du-du-du». Ma lei li stende tutti in uno: «Troppo corta è la tua giacca/ meglio quella americana / Io non bevo vino Chianti ma cedrate del Montana / Di Venezia non parlar, in Florida devi andar …».

Loro insistono, ma lei precisa anche: «Non cantare a pranzo e a cena, come fa Maurizio Arena…». Alla fine tutti si arrendono, e non c’è scontro di civiltà. Loro accettano la giacca lunga, le cedrate del Montana, Perry Como, l’ottetto di Gerry Mulligan (invece della Scala), la Florida, e di non cantare all’ora dei pasti. In cambio, Lucia (“Mary”, nella canzone) suggerisce, vinta: «Ma se poi mi sussurri kiss me / baciami all’italiana!…». Un bel ripasso dei tempi andati. Dei loro cliché con tanto di sottotesti. Della loro grazia. Di Lucia Mannucci e dei suoi tre italiani del dopo-dopo guerra.

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Maurice Andrè

(21 maggio 1933 – 25 febbraio 2012)

«Il più grande trombettista classico del Novecento» aveva 78 anni, era figlio di un minatore francese appassionato di quello specifico strumento, e aveva lui stesso lavorato in miniera – nel Sud della Francia – dai 14 ai 18 anni. Per spiegare, qualche anno fa, lo stato d’animo particolare che un virtuoso della tromba dovrebbe mantenere all’inizio di un concerto, ha usato questa immagine: «Sei come un matador che entra nell’arena, e ha di fronte il toro. Devi avere il piglio del vincitore. Tutto il contrario di un flautista o di un oboista: entrano sempre cauti, quasi circospetti…».

Il risultato, cioè la vita artistica, di un’attitudine di quel tipo, ha coinciso con un traguardo e diverse qualità di Maurice André: ha dato una dignità soggettiva, grande e solitaria, alla tromba – inventandone quasi il ruolo solista – e ha perfezionato un suo tono «caldo, forte», elaborando una tecnica «scintillante». Sono stati gli aggettivi che lo hanno sempre definito, insieme al ricordo delle «onde di applausi» che seguivano a un concerto dove André suonava.

Si parla di tromba classica – nel caso di Maurice, di tromba barocca – cioè di uno strumento che, in genere non aveva un primo piano nell’insieme dell’orchestra: il contrario dell’«io» pungente della tromba jazz.

In miniera, André ragazzino ha imparato la resistenza col fiato: avrebbe detto che era stato un tirocinio abbastanza unico. Aveva fatto pratica nelle bande militari (dove i trombettisti sono sempre, ovviamente, richiesti) e il diploma al Conservatorio di Parigi arrivava a vent’anni, nel 1953. Dal 1960, fino a dieci anni fa, Maurice André è stato un matador progressivo nelle più importanti arene musicali del mondo: senza uccidere tori, ha trasformato il suono della tromba quasi in una voce, e in un canto. Peraltro, se la si ascolta da sola, è così. O dovrebbe essere. Il suo Secondo Concerto Brandeburghese di Bach è magnifico, ma quel livello è toccato anche in Vivaldi, Tartini, Telemann.
 

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Aveva un’altra qualità: non era un purista. A volte è fondamentale: si può andare di un ottava sopra nelle ultime note di un concerto, «per far godere al massimo chi ascolta».

Maurice André lo diceva, e lo ha fatto. Meritandosi anche un ricordo di questo tenore: «Rendeva possibile ogni pirotecnica». È morto a Bayonne, per ragioni non specificate. 
 

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