Jack Tramiel
(13 dicembre 1928 – 15 aprile 2012)
Se la seconda metà del Novecento, con molti suoi soggetti, diventasse un film unico, gli 83 anni di vita del signor Tramiel, polacco-americano, sarebbero una fonte per lo sceneggiatore e il regista. E il pubblico, continuamente sorpreso dai fatti, non saprebbe quali di questi scegliere come marchio di genere del film stesso. Tramiel è morto d’infarto a Palo Alto, California, ma veniva da Lodz, Polonia, dove il suo cognome d’origine era Trzmiel.
In America era più che una celebrità, anche per il suo carattere autoritario: era l’uomo che aveva inventato il “Commodore 64”, il primo computer di massa, a prezzi competitivi (cioè relativamente bassi), che inaugurava, negli anni Settanta-Ottanta, il mercato dei personal computer. Ecco un primo soggetto di quell’ipotetico film.
Tramiel era anche uno che diceva in faccia a tutti: «business is war!», fumando spesso un sigaro (in continuazione, nell’America no-smoking degli ultimi trent’anni).
Era, all’origine, un ragazzo ebreo di Lodz, che i nazisti avrebbero confinato, insieme ai suoi genitori, nel ghetto di quella città, prima di deportarli, nell’agosto del 1944, nel campo di Auschwitz-Birkenau (un secondo soggetto, centrale, della storia). In quel ghetto, per sopravvivere, riparavano scarpe, il primo mestiere del giovane Trzmiel. Nel dopoguerra, dopo aver vagato due anni per l’Europa ed essere poi emigrato negli Stati Uniti, avrebbe imparato a riparare macchine da scrivere – nell’esercito americano – fino a produrle in proprio, con una sua azienda chiamata da lui Commodore (dal nome della Opel Commodore, l’auto che aveva spesso guidato facendo anche il taxista).
Era il marito di una ragazza, polacca-ebrea come lui, Helen Goldrub: l’aveva conosciuta nel campo nazista. Erano due scampati, e lui, in particolare, insieme a suo padre, era stato assegnato da Josef Mengele in persona – il medico serial killer nazista che faceva i suoi esperimenti “razziali” sui deportati – al lavoro coatto. Il padre sarebbe morto di tifo, mentre Jack e sua madre si sarebbero salvati.
Jack sarebbe stato anche un imprenditore coinvolto in un’accusa di insider trading, negli anni Cinquanta: si era spostato in Canada, con la sua prima Commodore, e dopo quell’accusa con tanto di indagine, tornava nel suo Paese, scegliendo di esplorare un po’ un’area promettente per gli sviluppi della tecnologia: la Silicon Valley californiana (il terzo soggetto, dominante, entra in scena).
Avrebbe approfondito, nello stesso tempo, in Giappone, la tecnica, già molto sofisticata, dei calcolatori digitali, tenendosi al fianco un esperto di prim’ordine: l’ingegner Charles Peddle, canadese, creatore del microprocessore 650 2, lanciato subito da Jack come il “cheap computer chip”. Jack Tramiel, vissuto per un anno in mezzo a masse di persone destinate, come lui, alla morte, si identificava, con naturalezza, con gli esseri umani “di massa”, cioè milioni e milioni di persone. Nel dopoguerra americano, con la massa dei consumatori della rinascita generalizzata.
Se il “business” era “war”, i suoi prodotti più nuovi non potevano, secondo lui, curarsi troppo della ricercatezza estetica, ma soprattutto servire i più. Negli slogan di lancio dei primi computer Commodore – il Pet, e soprattutto il Commodore 64 (anni Settanta e primi anni Ottanta) – c’era la sintesi di quello che Jack pensava e di come voleva sbaragliare la concorrenza: «Commodore Ate the Apple» (1983), oppure «A computer for masses and not classes» (stesso periodo).
Un quarto soggetto dell’ipotetico film potrebbe essere la fortuna, e l’intelligenza, nell’inventare grida pubblicitarie muscolari, all’inizio dell’era di Ronald Reagan. E nel precisare, nei fatti, perché era meglio comprare un Commodore piuttosto che un Apple: il Commodore 64, ad esempio, era il primo computer ad avere un “color graphic”, e un chip con un sintetizzatore per l’audio. E piaceva molto, soprattutto all’inizio, al mercato europeo: dove, per un po’ di tempo, la strategia consisteva nel vendere due computer al prezzo di uno. E per le scuole, in particolare. A circa 300 dollari.
Si capisce come mai, trent’anni fa, Jack Tramiel fosse già definito, con suo sommo piacere, “l’anti Steve Jobs”. E come, morendo neanche un anno dopo Steve Jobs, lo sia rimasto. E il film potrebbe fermarsi qui, con un titolo possibile, anche se molto facile.
Jim Marshall
(29 luglio 1923 – 5 aprile 2012)
Dare il proprio nome a un tipo di suono è un’ambizione alta. Nella storia della musica complessa (chiamarla “classica” è inesatto) l’esempio più celebre resta quello di Antonio Sradivari: strumento, cioè violino, più suono. Con Jim Marshall, inventore e produttore inglese, è il rock ad aver fatto un balzo da molte leghe.
Aveva quasi 89 anni, e nei tempi, non lontanissimi, in cui Londra e l’Inghilterra “sbocciava” di Beatles, e di novità varie, Jim mandava avanti un negozio di strumenti musicali – soprattutto rock – ad Hanwell, nel sobborgo di Ealing della capitale. Lo venivano a trovare gli artisti del mestiere, alla “ricerca del suono”, o di suoni nuovi, del loro tempo allegro e anche crudo.
Ascoltandoli (parlare e suonare) gli è venuta l’intuizione: un amplificatore diverso, più potente. E lo ha fatto, diventandone un produttore, e poi – come è stato ricordato – una “leggenda del rock”. È stato il creatore della Marshall Amplification, cioè degli amplificatori dopo i quali «il rock’n’roll non è stato più lo stesso». Così ha detto, con gratitudine, l’ex chitarrista dei Gun’s ’N Roses, Slash. Aggiungendo, con un certo piacere verso la perennità: «I suoi amplificatori vivranno per sempre».
Trattandosi di musica, la visione non è così pomposa, e avrebbe potuto condividerla anche Jimi Hendrix. E possono sottoscriverla una fila di primi nomi della chitarra elettrica: Eric Clapton, Jimmy Page (ex chitarrista dei Led Zeppelin), o Pete Twnsend, degli Who. Tutti loro, una quarantina d’anni fa, si sono ritrovati in un mondo nuovo, grazie a quegli amplificatori: il padre del “grosso suono”, cioè Marshall, aveva messo insieme un marchingegno più potente, che percuoteva. A parte la tecnica – un amplificatore è un oggetto tecnologico preciso – era come se fosse nato un diverso tipo di timpano e di orecchio. Un’altra invenzione di quegli anni Sessanta allegri e senza troppi veli. Neppure sonori.