Catanzaro, periferia di Bangalore – Salvatore Scalzo
L’unica volta che ho visto una performance di Salvatore, lui non parlò, come sarebbe convenuto a un politico del suo livello. Cantò. Un paio di Lieder di Schubert, l’Ave Maria di Gounod, un po’ di Verdi. il suo timbro baritonale, possente ma dolce, riempiva le navate della chiesetta barocca dove eravamo saliti lungo il fianco di un monte da cui, nelle belle giornate, si vede il tirreno da un lato, lo Ionio dall’altro. Ma questa era una rigida serata d’inverno. L’odore dei castagneti sul crinale gravava fra le panche della pieve, l’imperizia della pianista stendeva un chiasso innocente sulla sua voce. Lui, il cravattino rosso, pizzo e baffi da baritono giovane, non perse la concentrazione neanche un attimo. il pubblico di teste grigie avviluppato nei paltò si spellava le mani a ogni pausa.
Non era andata così la prima volta che Salvatore Scalzo era comparso in pubblico, dopo otto anni di assenza da Catanzaro. fino a non molto tempo prima, lui era abituato ad affrontare teatri pieni di floridi calvinisti cantando il Requiem di Brahms nel Limburgo o la parte di Don Giovanni alla nederlandse opera di Amsterdam. Gli olandesi apprezzavano la sua dizione italiana nitida e passionale. Aveva ottenuto il diploma all’Accademia di Santa cecilia a roma, mentre studiava scienze politiche. non era rimasto indietro di un solo esame neanche quando ha rischiato di perdere l’occhio destro per il distacco della retina. Poi, a colpi di do di petto nei Paesi Bassi, 500 euro per una serata da corista, 1500 per una da solista, si era aperto la strada sino a un master in affari europei a Maastricht. Alla fine era approdato a Bruxelles, a soli ventisei anni aveva conquistato un’agiata posizione nella commissione europea, una fidanzata anglocanadese, un bell’appartamento nel quartiere multietnico di Bruxelles.
È a quel punto che gli è arrivata la telefonata da Catanzaro.
Stava mangiando con degli amici in un ristorante spagnolo di Rue Franklin. cercavano qualcuno con cui perdere alle comunali, giù a casa. Lui si era sempre tenuto fuori dai partiti, ma aveva fondato Ulixes, l’associazione dei ragazzi catanzaresi della diaspora e di quelli che, invece, erano rimasti a casa. il suo era il nome ideale. Un candidato sindaco dal volto fresco, più giovane dell’85 per cento degli aventi diritto al voto della città. fra i suoi coetanei nella fascia tra i diciotto e i ventinove anni – esclusi ovviamente gli studenti – meno di uno su tre aveva un’occupazione, ma questo, forse, avrebbe potuto fare di loro degli elettori più liberi: quando uno sa che non rischia di perdere quei 380 euro netti al mese del posto al call center se non mette la crocetta sul nome giusto, magari entra in cabina elettorale con l’animo meno oppresso.
Contro Salvatore gareggiava un candidato che nessun altro aveva avuto voglia di sfidare: ex neofascista, passato a sostenere la coalizione uscente di centrosinistra, e stavolta di nuovo in corsa a destra. A sessantatré anni, l’altro candidato era in posizione ideale per prendere i voti di quel partito di maggioranza relativa e in continua ascesa che sono gli elettori dai sessant’anni in su. Bastavano due calcoli, per andare sul sicuro. in italia nel 1981 vivevano appena sei over-sessantacinquenni ogni dieci under-quindicenni, ma con un’impressionante progressione i primi sono più che raddoppiati nel giro di trent’anni: quasi quindici anziani per ogni dieci giovani in circolazione in italia nel 2012. Dopo il Giappone e la Germania, è il predominio delle teste grigie più netto al mondo. E a Catanzaro questo equilibrio di potere si sta spostando a favore degli over-sessantacinque a un ritmo tre volte più veloce rispetto alla media nazionale. Di questo passo sarà presto una dominazione schiacciante, e la città una delle roccheforti elettorali degli anziani più solide al mondo. chi intercetta quei voti, chi dice e fa le cose che conquistano le persone in età, è come se avesse già vinto.
E al netto delle badanti ucraine e di pochi altri immigrati (che comunque non votano), l’avversario di Scalzo poteva contare sul consenso di una popolazione crollata del 4 per cento in soli dieci anni. Meno di centomila abitanti, presto anche meno di novantamila. in queste condizioni di deperimento biologico il candidato sessantatreenne non poteva perdere. i sondaggi lo davano attorno all’80 per cento. A Catanzaro, fra questi uomini politici navigati si può smarrire facilmente il senso dell’orientamento, ma neanche questo è veramente un problema: il nord della bussola lo indicheranno sempre i tre o quattro oligarchi del posto. Da generazioni sono loro a distribuire gli appoggi, assicurare il denaro elettorale, orientare il voto delle migliaia di famiglie che per vivere dipendono dalle loro imprese. Loro si occupano per lo più di costruzioni e di supermercati. i più tecnologici si sono spinti a stampare i formulari della burocrazia locale, e tutti affittano i loro palazzi risorgimentali del centro agli uffici pubblici: il comune, la provincia, la regione, il tribunale, la corte d’appello, l’azienda sanitaria, la delegazione del tesoro.
È come se, nel passaggio dai padri ai figli ai nipoti, il calendario dei decenni ruotasse sempre su se stesso. Le solite poche dinastie di notabili estraggono le loro rendite e assolvono sempre agli stessi antichi bisogni della comunità: edilizia e alimentari. Un tetto sulla testa, un piatto in tavola, l’istinto di sopravvivenza e poco più. Il punto di riferimento politico di questi oligarchi è un altro degli ex neofascisti transitati a sinistra e poi tornati a destra. È un amico degli amici, consigliere regionale a 15.000 euro al mese, assessore regionale con controllo sui budget più ricchi della città. Un uomo che, se le cose non vanno come desidera, si leva le scarpe e le sbatte sul tavolo del parlamento cittadino come fece Nikita Kruscev all’assemblea generale dell’Onu. Nikita Kruscev inquadrò subito Salvatore Scalzo. fin dall’inizio della campagna elettorale lo soprannominò «pupo di pezza» per i suoi ventisette anni, e «uomo venuto da Marte» perché si era prima autosospeso e poi dimesso dalla commissione europea per correre come candidato a perdere al comune di Catanzaro. Kruscev non si era mai staccato dai tre monti aspri su cui è arroccata la città. Salvatore ci tornava dopo otto anni. Curiosi e amici, al suo debutto da candidato erano venuti tutti. La sala non aveva niente a che fare con lo splendore di un teatro di Amsterdam, ma era piena. Salvatore soffiò nel microfono e iniziò a dire, molto educatamente, cose mai sentite prima. Parlò dei dati del Banco alimentare, l’ente di beneficenza che distribuisce cibo ai bisognosi: nell’ultimo anno quindici catanzaresi su cento si erano presentati almeno una volta alle mense dei poveri per mangiare gratis, con un aumento esponenziale dagli anni precedenti. in realtà si sbagliava, perché ho controllato i dati: se si conta l’effetto Ulixes (molti, registrati come residenti, in realtà sono emigrati da tempo) e le mense dove si può mangiare senza fornire le generalità, nel 2011 siamo vicini al 20 per cento. Uno su cinque.
Alla fine, alle elezioni comunali il candidato consigliere che ottenne il maggior numero di voti fu comunque il direttore generale del più grande call center della città, il principale datore di lavoro della provincia. Un call center, di solito, è uno spazio industriale in periferia nel quale sono allineati gabbiotti di compensato a centinaia, a migliaia nei più grandi, ciascuno con il suo computer, il telefono e la cuffia di plastica. Una postazione così può costare anche solo 80 euro, dunque avviare l’attività non è difficile. i call center minori, i subappaltatori dei subappaltatori, spuntano come funghi anche negli appartamenti, nelle rimesse di campagna o nei villaggi sulle pendici della Sila, dove, ogni volta, attraggono decine di casalinghe. Prima le comari appendevano salami piccanti in cantina e cuocevano marmitte di pommarola tutto il giorno. ora si sistemano la cuffia e telefonano a 1500 chilometri di distanza: «Buongiorno, le interessa un nuovo servizio a banda larga?» o «Le interessa un prestito a condizioni speciali per comprare una cucina nuova?».
I call center di Catanzaro lavorano tutti con commesse di aziende italiane o internazionali come telecom italia, tim, Vodafone, Wind, H3G, fastweb, Sky, Enel, Poste italiane, American Express, banche o società di credito al consumo come Santander, findomestic e editori come rcs, l’azienda della quale io sono un dipendente. È la delocalizzazione dei servizi all’italiana. Quando, qualche anno fa, Thomas Friedman del «New York Times» scoprì un fenomeno del genere a Bangalore, in India, scrisse un saggio di successo intitolato The World Is Flat (Il mondo è piatto). Friedman ne era entusiasta. Per fornire a basso costo i servizi immateriali del XXI secolo, qualunque cosa possa viaggiare su un cavo a fibre ottiche, ognuno cerca le zone più arretrate del proprio impero scomparso. Lì il lavoro costa meno e la distanza dal punto di consegna non significa più nulla. Le grandi aziende inglesi o americane o australiane hanno aperto i loro call center in india, dove milioni di ragazzi parlano la lingua dell’antico potere coloniale; i francesi vanno in Marocco, Mauritania o Burkina Faso; gli spagnoli in Argentina o in Messico.
Noi italiani, vista la miseria della nostra storia coloniale, andiamo in calabria. o, come fa Vodafone, gruppo quotato a Londra e presente in sessantasette paesi, apriamo un call center in subappalto a Gianturco, provincia di napoli. «The world is flat», ma anche l’italia, nel suo piccolo, sta cercando di diventare piatta. È come se l’ex colonia noi ce la fossimo ricavata al nostro interno, nei territori in cui non più di una persona in età da lavoro su due può vantare ufficialmente un’occupazione. Componete il numero del centralino dell’Enel a Roma e vi risponderà Catanzaro, fate il 199 di Tim e vi risponderà sempre Catanzaro, fate il 184 di Vodafone e noterete che l’accento è calabrese, e se poi ricevete una chiamata di Fastweb o di Sky che vi offre un nuovo servizio a un prezzo imbattibile, anche quella verrà molto probabilmente dalle pendici della Sila. C’è una logica: è l’area dal reddito per abitante fra i più bassi nel territorio dell’euro. Qui, per chi è sotto i trent’anni c’è sempre meno lavoro, dunque chi ne vuole deve accettarlo a qualunque condizione.
È impossibile capire Catanzaro se non si tiene conto di questa trasformazione dell’italia nell’era del deperimento biologico e delle tecnologie, ed è impossibile capire l’italia e l’Europa se non si capisce Catanzaro. La città non è una deviazione dalla norma; come Sidi Bouzid in Tunisia, dove Mohamed Bouazizi un giorno si è dato fuoco, è forse solo il punto di massima tensione di un tessuto più vasto o la destinazione verso la quale milioni di altri temono di essere in cammino. Me ne sono reso conto una sera quando sono andato su internet a vedere un comizio di Salvatore. Erano passati mesi dalle elezioni, ma la chiusura della sua campagna era ancora su youtube perché Scalzo aveva portato a Catanzaro sistemi mai visti prima da queste parti. tutti i giorni postava un diario-video della sua campagna su facebook e su twitter. Apriva sottoscrizioni online, anche di 1 o 2 euro, come aveva fatto Barack Obama nella corsa per la Casa Bianca del 2008. organizzava flash mob in centro, centinaia di ragazzi che, nella via principale dello struscio, si mettono a correre senza scarpe per il «candidato Scalzo», filmati con i cellulari e poi diffusi attraverso i social network. improvvisava incontri nei piazzali dei call center negli orari di cambio turno.
In quel comizio di fine campagna elettorale Salvatore fu al solito garbato, ma duro. «ci stanno insegnando ad accontentarci di poco. i giovani non hanno certezze e in città si continua a ricattare per il lavoro» lo si sente dire nel video su Youtube. E poi: «Voi sapete da dove provengo, Ulixes significa anche ritorno: ritorno all’itaca del voto libero, scacciando i proci che tengono in scacco questa città». Mentre parla si sente l’entusiasmo nella piazza, gli applausi, si vede la gente salire sul palco per abbracciarlo, scene di un’isteria liberatoria attorno a qualcuno che finalmente sta dicendo la verità. Salvatore Scalzo quella volta non arrivò nemmeno al secondo turno. Il suo avversario venne eletto immediatamente. Subito prima delle elezioni, i sondaggi indicavano una divisione degli elettori che aveva sconvolto l’abituale linea di faglia tra destra e sinistra, mutandola in una divisione basata sulla data di nascita degli elettori: l’80 per cento di quelli sotto i trent’anni aveva espresso l’intenzione di votare per Scalzo. il suo avversario, che aveva sentito spostarsi il terreno sotto i piedi, aveva organizzato l’ultima serata della sua campagna in discoteca per cercare di recuperare un po’ di voto giovanile. Andò deserta, ma il peso della maggioranza anziana sarebbe comunque bastato.
Quella tornata elettorale è rimasta come la più strana d’Italia: Scalzo ha perso, ma risulta il candidato più premiato del paese dal cosiddetto voto disgiunto. Ha votato per lui il 50 per cento di elettori in più rispetto a coloro che avevano scelto la sua lista, probabilmente perché a Catanzaro non è solo una questione di giovani contro vecchi.
In città, controllando la circoscrizione e la sezione nella quale ciascuna famiglia va alle urne, quindi incrociandole minuziosamente con il numero di preferenze ricevuto dai singoli candidati in ciascuna scatola di cartone, si può risalire a ogni voto. È una specie di analisi organolettica della democrazia. Una scheda elettorale delle comunali è tracciabile. tutti sanno cosa voti o, se non altro, riescono a fartelo credere. chi promette un lavoro o lo elargisce, soprattutto se precario e revocabile, spesso lo accompagna con un’indicazione di voto. È per questo che di solito l’affluenza crolla di un terzo quando si arriva al secondo turno, dove si sceglie solo fra i due concorrenti alla poltrona di sindaco e dunque la verifica incrociata delle preferenze diventa impossibile. Allora si può evitare di fare il proprio dovere senza timore di essere scoperti, e non ci si scomoda. Dove non c’è lavoro, il voto locale non è più né segreto né libero. Diventa normale che il capo del principale call center finisca per prendere il maggior numero di preferenze. La rivista newyorkese «Foreign Affairs» definisce un modello del genere «autoritarismo competitivo», un sistema che permette a vari gruppi di concorrere per il potere, ma con così scarso riguardo per le regole che non la si può definire fino in fondo una democrazia. Sono le presidenziali in Russia, o in Cambogia, o le elezioni comunali nella città di Catanzaro.
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© Mondadori – Federico Fubini, Noi siamo la rivoluzione
Al libro di carta si accompagna un ebook che amplia i temi dell’ultimo capitolo. Il titolo è “La Cina siamo noi” e si concentra sull’economia italiana, soprattutto meridionale.
Il libro di Fubini raccoglie storie di tutto il mondo. I luoghi e i personaggi sono illustrati anche in questo slideshow.