PALERMO – Uno fu catturato dagli inglesi e se li fece amici costruendo un castello. Passò la vita ad abbellire la sua casa-baracca con sculture di cemento e vetri di bottiglia, finché gliela distrussero per farci il parcheggio di un supermercato. Un altro tornò dall’America, comprò tre ettari alle falde del monte Cronio e per cinquant’anni scolpì migliaia di teste di pietra, dipingendole di rosa. Un altro ancora vendeva semi di zucca abbrustoliti sul lungomare palermitano. Componeva raffinati disegni con la sua penna – l’opera era finita solo quando terminava la biro – e li vendeva ai turisti di passaggio. E, occasionalmente, a Enzo Sellerio e Leonardo Sciascia. L’ultimo scolpiva teste col tufo di Favignana e le cementava sulle case degli isolani, senza il consenso dei proprietari. Finì per scolpire gli scogli delle cale.
Otto siciliani accomunati dall’ossessione e dall’analfabetismo. Artisti per urgenza espressiva, spesso derisi nelle loro città, apprezzati e valorizzati all’estero. Per evitare che non accada più (le teste di Bentivegna furono in buona parte rubate, la casa di Cammarata è stata quasi tutta distrutta), l’Università di Palermo ha promosso un osservatorio sugli artisti “Outsider” per ricordare quelli del passato e valorizzare i contemporanei. I riconoscimenti europei sono arrivati subito: il museo internazionale di Losanna, un gruppo di ricerca a Parigi, un analogo osservatorio a Randers, Danimarca. Infine la collaborazione alla mostra Banditi dell’arte che si terrà a Montmartre.
Chi sono gli artisti outsider? Lo spiega a Linkiesta Eva Di Stefano, docente di Arte Contemporanea nell’ateneo palermitano e direttrice dell’Osservatorio. «Il francese Dubuffet parlava di Art Brut, riferendosi al carattere puro dell’opera (brut è lo champagne senza l’aggiunta di zucchero). Lo storico inglese Roger Cardinal pone l’accento sulla posizione sociale dell’autore. L’arte outsider è molto diversa da quella naif, che si basa sull’ingenuità culturale dell’autore e l’accordo commerciale col suo promotore». Gli outsider – anche quando tentano l’inserimento nei circuiti ufficiali – non possono perdere la loro vera natura. Regalano le proprie opere o chiedono cifre spropositate.
Il più famoso di tutti è Filippo Bentivegna. Emigrò negli Stati Uniti intorno al 1912. Si presentava all’ufficio brevetti americano con caffettiere multibeccuccio e nuovi tipi di salvagente. Poi torna in Sicilia, acquista tre ettari nei pressi di Sciacca, alle falde del mitico monte Cronio. I templi di Selinunte non sono lontani. Inizia a scolpire nelle pietra migliaia di teste che dispone sul terreno e colora di rosa. Per i suoi compaesani è pazzo e lui avvalora l’ipotesi: durante la sua vita dirà di parlare con Mussolini attraverso una condotta d’acqua o che Picasso fosse venuto nel suo giardino per rubargli le idee.
Ma l’incontro decisivo è con Gosta Liliestrom, artista svedese che per primo comprende la grandezza di “Filippo delle teste”. I critici stranieri notano che l’ispirazione è la stessa della celebre villa dei mostri di Bagheria, che colpì Goethe durante il viaggio in Italia. La sua fama inizia a circolare, l’Azienda del turismo lo inserisce tra le attrazioni del luogo, il museo di Losanna espone alcune opere. Parallelamente, si moltiplicano i furti nel giardino, finché nel 1973 la Regione Sicilia lo acquista per 29 milioni di lire.
’Zu Sarino (Rosario Santamaria) visse sempre a Favignana, isola a forma di farfalla di fronte a Marsala. Lavorava nelle cave di tufo, pietra che col tempo tende all’ocra, materia di costruzione dei migliori palazzi siciliani. Gli operai erano abituati a respirare la sottile polvere bianca e a estrarre blocchi regolari dai grandi canyon nei pressi delle cale a picco sul mare. Cusumano fu poi marinaio, arrivò fino in India, tornò a casa, per un breve periodo fu vigile urbano, il resto della vita la passa a scolpire: in particolare teste, che pone sui cancelli e sui pilastri delle case, spesso senza il consenso dei proprietari. Ma dipinge anche gli scogli nei pressi delle cale. Considerato poco più di un folle, della sua opera non rimane quasi niente.
Destino simile a quello del cavalier Giovanni Cammarata (cavaliere, ovviamente, lo nominò il popolo per celebrare le sue abilità). Passò la vita ad aggiungere sculture alla sua casa – baracca di Maregrosso, quartiere degradato che nonostante il nome chiude lo guardo allo Stretto di Messina con orrendi capannoni, discariche, cantieri abbandonati. «Non rompete le opere di notte», scrisse Cammarata con pietre e vetri colorati, rivolgendosi a vandali che ogni tanto facevano a pezzi una scultura. Non sapeva che la sua opera sarebbe stata quasi tutta distrutta dalle ruspe di un potentato economico della città arricchitosi con la costruzione di aliscafi. Dopo una lunga controversia, rimase in piedi solo la facciata. Il resto fu abbattuto e asfaltato per farci il parcheggio di un supermercato. Oggi quello che resta è malinconicamente avvolto da una rete metallica.
Gaetano Gambino è stato inserito nel “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”, celebre opera dello scrittore Roberto Alaimo. Anche lui una vita da emarginato – risse, carcere, il chiosco dei semi di zucca – riscattata dall’abitudine compulsiva a disegnare fittissimi tratti con una biro. Fu apprezzato da Sellerio e Sciascia, ma non riuscì mai a inserirsi in un ambiente “ufficiale”. Ci provò invece Francesco Giombarresi, di Comiso, provincia di Ragusa. Bufalino, suo compaesano, lo osservava dall’altra estremità di piazza Fonte Diana ma non ne tollerava gli eccessi. Sciascia gli dedica un articolo sul Corriere della Sera citando la pirandelliana “corda pazza”. Ma il pittore-contadino rimarrà quello che era. Nonostante i viaggi in Francia e negli USA – da artista, non da emigrante – chiedeva cifre esagerate per i suoi quadri mettendo in imbarazzo i presenti.
«Le caratteristiche dell’artista outsider sono la marginalità sociale, l’ingenuità culturale, il carattere disinteressato della creazione, l’autarchia artistica, l’inventività, la compulsione del fare, la saturazione dello spazio», ci spiega la professoressa Di Stefano. «La maggior parte di loro è il prodotto di un’esperienza traumatica (la guerra mondiale, l’emigrazione intercontinentale) e del declino della cultura popolare. Una reazione alla perdita di identità. Non vengono più riconosciuti come appartenenti al contesto: sono esiliati ai margini. Sembrerebbero figure sradicate, nella loro bizzarria. Ma in realtà hanno radici molto profonde. Sono esponenti di quella sapienza delle mani che nella modernità ha perso valore».
Il fenomeno non è scomparso. A Capo Gallo, nei pressi di Palermo, c’è il “semaforo”, un faro che serviva a inviare segnalazioni alle navi di passaggio. Oggi è abitato da un moderno eremita che ha abbandonato la sua famiglia al quartiere degradato dello Zen e aggiunge ogni giorno alle pareti elementi islamici, ebraici e cristiani. I pochi che l’hanno visitato raccontano che all’eco del mare si somma l’aria mistica di una moschea.