Eugene J. Polley
(29 novembre 1915 – 20 maggio 2012)
Inventore americano, chiamato “Gene” dalla nascita, con un padre che aveva mollato la famiglia quando il bambino aveva dieci anni, e con un’idiosincrasia per il suo secondo nome, Theodore, rimpiazzato da Joseph, nell’abbreviazione “J”. Il padre, per inciso, contrabbandava alcolici. Gene, dal cambio del nome in avanti, prendeva le distanze, o faceva di testa sua: studente, e poi laureato all’Illinois Institute of Technology di Chicago, aveva speso tutti i suoi soldi per arrivare al “degree”, e a 20 anni entrava alla Zenith Radio Company – nel settore dell’ingegneria – stipendiato con 40 centesimi all’ora. È morto a 96 anni, di domenica, celebrato, da molti anni e dappertutto, come “l’inventore del telecomando”.
Si celebra, o si parla, di uno dei segni dominanti del comfort e dell’impazienza: il mondo cambia canale in continuazione, volendolo o senza pensarci, stando comodo ma con una frenesia automatica ai limiti dell’azzeramento delle scelte. E tutto questo è, insieme, un dato di fatto e una compulsione. Gene Joseph Polley, negli anni Cinquanta, non si poneva problemi di questo tipo, ma, facendo il pioniere dei media in una grande azienda di comunicazioni, puntava a un’utopia precisa: commercializzare un servizio di massima comodità per una folla crescente – almeno negli Stati Uniti – di teleconsumatori. E, soprattutto, di consumatori tout court: la tv commerciale era “mercato”, e il più diretto, oltre che un dernier cri del dopoguerra americano.
L’invenzione vera e propria veniva lanciata nel 1955, e la rivoluzione stava nell’assenza di fili: si chiamava Zenith Flash-Matic, il suo strillo pubblicitario si presentava con un perentorio “Just think!”, e procedeva con la meraviglia della spiegazione. «Senza muovervi dalla vostra comoda poltrona, potete girare il vostro nuovo Zenith Flash-Matic, spegnere, o cambiare canali. Potete anche chiudere, o isolare, i più noiosi annunci commerciali, mentre l’immagine resta sullo schermo».
Senza contraddire tutti i vantaggi che un annuncio pubblicitario offriva e traeva dalla propria autopresentazione, il teleconsumatore – più o meno dipendente – era anche servito per difendersi, subito, dall’interruzione di mercato: il telecomando era lì, pronto, per far cambiare la scena, premendo un pulsante. Un passaggio, oggi, velocissimo e di routine, ma quasi 60 anni fa era un sottilissimo suggerimento all’agilità in senso lato, e verso le molte scelte – sempre di mercato – che la tv metteva a disposizione: “cambiare canale” nell’immediato e fra le mura delle proprie case, diventava anche un gesto più avanzato della geopolitica, inchiodata, a quei tempi, alla staticità della Guerra Fredda.
In questo senso, Gene Polley potrebbe essere considerato un precursore di molte cose, simboliche e non: l’assenza di fili come segno di libertà, o il passare da un programma all’altro, lo “zapping”, come un anticipo dei ritmi che il mondo andava assumendo. O anche l’annuncio, involontario, di una nuova forma d’ipnosi, la “teledipendenza” variamente schizzata, ai bordi del rimbecillimento davanti allo schermo, con il telecomando in mano. In fondo, la preistoria del gesto mondiale di oggi, quello con i telefonini. Ma anche i ritmi dell’aggiornamento, dell’informazione, e quindi il perfezionamento dei programmi derivati, la nascita dei talk-show, eccetera.
Tecnicamente, il Flash-Matic aveva la struttura, e la forma, di una pistola laser: permetteva di comandare la televisione grazie a delle spie luminose ripartite sui quattro angoli dello schermo. Un aggiornamento dell’aggeggio sarebbe venuto subito dopo, nel 1956, messo a punto da Robert Adler, anche lui tecnico della Zenith, e amico di Gene: nel 1997, sarebbero stati premiati insieme con l’Emmy Award della National Academy of Television Arts and Science. Ma solo Gene Polley, e non Adler, avrebbe commentato la sua invenzione (come fanno ogni tanto gli inventori): «Lo sciacquone della toilette è stata probabilmente l’invenzione più civile mai realizzata, ma il controllo a distanza la segue subito dopo. È importante quasi come il sesso. Forse ho realizzato qualcosa per l’umanità intera».
Arno Lustiger
(7 maggio 1924 – 15 maggio 2012)
Arno era il diminutivo di Arnold: Lustiger è stato il cognome, molto conosciuto, dell’arcivescovo di Parigi – Jean-Marie Lustiger, morto nel 2007 – che non ha mai smesso di considerarsi ebreo anche dopo la conversione al cattolicesimo: a 14 anni, nascosto in Francia, e con la propria famiglia, di origine polacca, quasi interamente sterminata nel campo di Auschwitz. Arno Lustiger era suo cugino, ancora nato in Polonia, ma di cultura tedesca, e che non ha mai smesso di ritornare su quella scelta: è stato un bravissimo giornalista e storico di Francoforte, dove è morto, e dove ha contribuito a ricreare la comunità ebraica, già annientata dalla persecuzione nazista.
Aveva 88 anni, è stato un “salvato” nella Shoah, dopo essere stato deportato ad Auschwitz e in altri campi, ed essere sopravvissuto a diverse “marce della morte”. Tornando in Germania, nel dopo-catastrofe, restandoci attivamente, cioè nella ricostruzione di uno dei più antichi nuclei ebraici d’Europa, ha dato due mani,
prima di tutto ai suoi concittadini tedeschi, a elaborare il crimine, il lutto, e le diverse responsabilità in 12 anni di nazismo: non bastavano la memoria e i fatti, o il senso di colpa (che può produrre amnesie più o meno coscienti), occorreva una nuova vita
tedesco-ebraica. O ebraico-tedesca, a seconda delle singole angolazioni.
Francoforte è per molti versi la Germania di costante primo livello: la sua ricchezza, la sua cultura, la sua posizione (una specie di stomaco spostato un po’ a Ovest nel corpo del Paese), la città dove è nato Goethe, e dei filosofi-sociologi neo-marxisti della Scuola di Francoforte (prevalentemente di origine ebraica), e da dove sono venuti i Rothschild di Parigi, di Londra, e di Vienna.
Arno Lustiger è stato uno degli «studiosi di riferimento sulla storia ebraica del XX secolo» (come ha scritto la Frankfurter Allgemeine Zeitung) pensando, agendo, e scrivendo come un cittadino tedesco che si dava da fare, insieme ad altri, a compiere un miracolo laico. Cioè al fatto che la Germania avesse diritto di riavere delle comunità ebraiche, e che questo fosse anche un esito naturale (e non ambiguamente riparatorio) della Shoah.
Un punto centrale di un tema infinitamente complesso (l’essenza della “cittadinanza” ebraica nella Storia, e dopo la nascita dello Stato d’Israele), su cui l’ex presidente israeliano Ezer Weizman era scivolato, con una brutta gaffe, nel 1996, in visita ufficiale in Germania: dichiarando di «non capire come degli ebrei potessero ancora desiderare di vivere in territorio tedesco». Detto pubblicamente, di fronte ai rappresentanti delle comunità ebraiche che lo accoglievano.
I libri di Arno Lustiger, e le prospettive della sua ricerca hanno toccato, dall’angolazione ebraica, il XX secolo più tragico: dal “Libro rosso: Stalin e gli ebrei. La tragica storia del comitato di liberazione ebraico e degli ebrei sovietici”, a “Shalom Libertad! Gli ebrei nella guerra civile spagnola”, a numerosi scritti sulla condizione ebraica in Germania, durante gli anni del nazismo. Storia d’Europa, e di cittadini europei: privati dei loro diritti, e combattenti o perseguitati, e annientati in massa nei loro Paesi, o in altri, d’Europa.