CAVEZZO – «In dieci secondi ho perso tutto». Davanti al palazzo raso al suolo la donna scoppia in lacrime. L’edificio crollato poche ore prima è uno dei tanti cumuli di macerie di Cavezzo, il piccolo centro della bassa modenese distrutto dal terremoto. Quattro vittime, una donna estratta viva dalle macerie di un noto mobilificio della zona. Oltre 100 edifici collassati, il 70 per cento delle costruzioni del paese.
«Pensare che fino alle nove di ieri sera eravamo ancora qui dentro» continua la donna indicando l’ammasso di calcinacci e mattoni. Al primo piano dell’edificio c’era un negozio di abbigliamento, sopra alcune abitazioni. In mezzo gli uffici dove lavorava. Titolare di un’azienda biomedicale che nelle ultime settimane era finita al centro delle cronache nazionali: la Artech. «Siamo specializzati nella distribuzione di cuori artificiali e valvole cardiache» spiega. Il marito, accanto a lei, racconta orgoglioso del mini cuore artificiale che due mesi fa ha permesso il primo trapianto italiano su un bambino di due anni, all’ospedale Bambin Gesù di Roma. «Quel cuore – ora dice – l’avevamo importato noi». Solo ieri le ultime consegne, una a Padova e una a Bologna. Poi il crollo. «E tra le macerie è finito anche l’ultimo cuore artificiale che dovevamo consegnare».
Di fronte c’è la facciata della Chiesa di Sant’Egidio, il patrono del paese. «È rimasta solo quella – sorride triste uno degli abitanti che sono venuti in piazza a vedere quel che resta della città – Pensare che era una delle poche chiese di tutta la zona ad essersi salvata dalla prima scossa, una settimana fa». Oggi all’ora di pranzo è crollata. «Si è adeguata a tutte le altre – spiega l’uomo – A tutte le altre tranne la chiesa di San Giacomo (a pochi chilometri di distanza, ndr). Di quella non è rimasta neppure la facciata». La punta del campanile è spezzata. Dell’angelo di oltre due metri che campeggiava in cima – orgoglio di Cavezzo – non è rimasto nulla.
Sono crollati i vecchi edifici della città. Ma anche i palazzi più moderni. «Un disastro» come ripetono i pochi abitanti che si sono sistemati sulla piazza centrale. Si ripercorrono gli attimi dell’ultima scossa, quasi per esorcizzare la paura. «Quella dell’una è stata spaventosa – racconta un ragazzo – sarà durata trenta secondi, non finiva mai». Mentre al telefono si cerca una sistemazione per la notte. Già, perché stasera i campi per accogliere i senza tetto allestiti dalla Protezione civile saranno chiusi. Uno, vicino alla struttura sportiva del Palaverde, in funzione già da una settimana, non è più ritenuto sicuro. L’altro, in fase di allestimento nella parte opposta di Cavezzo, non è ancora pronto. Le tende e i letti sono in arrivo dall’Abruzzo. Ma non saranno qui prima di domani. E così chi non ha qualche familiare in zona, si prepara a passare la notte in macchina. Gli alberghi della zona hanno dato la loro disponibilità, ma potranno accogliere solo qualche centinaio di persone. «Rigorosamente donne e bambini» spiega un carabiniere.
Dal pomeriggio il centro cittadino è quasi deserto, circondato da agenti della forestale e vigili del fuoco. I curiosi sono invitati ad allontanarsi. Nel piccolo gazebo per il primo soccorso allestito fuori dalla sede della polizia municipale, fa bella mostra un cartello di avvertimento: “Fughe di gas”. Una cinquantina di metri e si arriva a piazza Primo maggio. È l’immagine più inquietante di quel che resta di Cavezzo. Una palazzina è stata squarciata dal terremoto. Attraverso l’apertura che la attraversa dal piano terra al tetto è ancora possibile vedere tutte le stanze dell’edificio. Anche se i pavimenti non esistono più. Appena dietro, un’abitazione si è accartocciata su sé stessa.
Tre vigili del fuoco provano a entrare in uno dei palazzi più pericolanti. Dopo qualche minuto uno di loro si affaccia al balcone per scambiare due parole con gli anziani proprietari, che attendono davanti al portone. A distanza di sicurezza. Subito dopo, il vigile esce con in mano una scatola piena di medicine. Porgendo alla signora un paio di occhiali di vista. Lei piange e lo abbraccia. Ma il marito preoccupato chiede: «Siete sicuri di aver chiuso bene la porta? Avete dato due mandate?». «Ne abbiamo date quattro – ride il vigile tradendo un marcato accento ligure – siamo genovesi noi».
L’unica struttura agibile in città è la “cooperativa giardino”. Uno spazio polifunzionale usato dal comune per organizzare gli eventi cittadini, da oggi sede della macchina organizzativa. Si raccolgono bottiglie d’acqua, i primi generi di conforto. Si stilano le liste dei danni e si accolgono i cittadini che hanno perso la casa. Si organizzano i volontari, tanti, arrivati qui fin dalle prime ore dopo il terremoto. Il giovane sindaco, Stefano Draghetti, corre da un capannello di persone all’altro. Sul volto e sulla camicia i segni del terremoto. «Niente stampa» risponde infastidito se qualcuno lo avvicina. Di fronte, una pizzeria è rimasta in bilico. Le colonne che sostengono il soffitto sono quasi crollate. L’edificio, sbilenco, è rimasto misteriosamente in piedi.
Non è l’unico. Ai cumuli di macerie si accompagnano numerosi palazzi sfigurati, inclinati. La maggior parte sembra dover crollare da un momento all’altro. Alcune strutture vengono tirate giù direttamente dalle ruspe, che all’imbrunire entrano nel centro cittadino. Altre rimangono così. Sospese nel vuoto. In attesa della prossima scossa di terremoto.