«Tutti pensano alle chiese. E i nostri macchinari?»

«Tutti pensano alle chiese. E i nostri macchinari?»

MIRANDOLA (MO) – I centri storici delle cittadine emiliane colpite dal terremoto sono chiusi in una zona rossa, con i loro castelli diroccati e le loro chiese crollate. Ma il grosso dei morti è stato nelle fabbriche, nelle zone industriali dove i capannoni di nuova costruzione hanno ceduto uno dopo l’altro. Il 90 per cento di quelli della vasta area industriale di Mirandola (Modena) – distretto del biomedicale e non solo – sono crollati o lesionati troppo profondamente per essere agibili. Andrea Meschieri, 47 anni e un’azienda di legatoria che ha oltre 50 anni di vita (fu fondata dal padre, morto nel 2009), gira in bicicletta con il figlio nel viale davanti al suo stabilimento e a tanti altri distrutti. A tre capannoni di distanza c’è il magazzino della Aries biomedical dove è rimasto ucciso anche il titolare, Mauro Mantovani. Era dentro con i vigili del fuoco per portare fuori le scorte, quando è arrivata la scossa che ha fatto crollare il tetto. Tutto è rimasto come alle 9 del mattino e la luce lampeggiante del muletto prestato a Mantovani proprio da Meschieri continua a balenare, gialla, sotto le macerie. «Questa volta non ci riprendiamo», dice Meschieri. «O lo Stato paga, o io me ne vado. Di soldi non ce ne metto più. O mi danno una mano a riaprire, o chiudo. Io qualcosa trovo, magari a Bologna. Gli operai non credo. Ma sono stufo. Le tasse le abbiamo sempre pagate e  da noi emiliani hanno sempre preso in tanti. Adesso tocca a noi prendere. O ci danno soldi a fondo perduto, o qui non ci rialziamo più. Non ho visto il giusto spirito tra la prima e la seconda scossa. Sono pessimista. Tutti si sono preoccupati del centro, delle chiese, dei monumenti, ma qua a darci una mano non si è vista anima viva. Dobbiamo tirare fuori le macchine, il nostro vero capitale, ma ci siamo dovuti organizzare da soli. E ora, dopo questo secondo terremoto, sarà ancora più difficile».

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Andrea Meschieri, delle Legatorie editoriali Meschieri di Mirandola

«Con la paura non vengono a fare lavori», spiega ancora Meschieri, «da me sarebbero dovuti venire oggi. Il mio capannone è inagibile dal terremoto del 20. Un pilastro si è inclinato e regge il peso del tetto con solo 5 centimentri. Qui non è venuto nessuno, erano tutti in centro, alla chiesa…», ripete, esasperato. «Davo lavoro a 12 persone (e a 18/20 prima della crisi). Temo che aiuteranno le grandi aziende, che si preoccuperanno del distretto del biomedicale che dà lavoro a migliaia di persone, e che di noi si dimentichino. Anche per gli operai la polenta si è rovesciata. Non devono più andare contro noi padroni. Lo sciopero lo facciano contro lo Stato, adesso, se vogliono continuare a lavorare. Dipende solo dallo Stato. Se dà i soldi, andiamo avanti. Altrimenti Mirandola è morta. Per sempre. Vai in banca e ti dicono “non c’è problema”, ma per darti il prestito vogliono garanzie. Prima ipotecavamo, adesso con i capannoni distrutti e le case lesionate che garanzie diamo? Abbiamo tutti debiti da finire da pagare, macchine che in tempo di crisi lavorano con margini bassissimi… Non siamo in condizioni di affrontare altre spese. Qua la zona industriale è stata costruita nel 1990 dalla Acea costruzioni. Io ho comprato tre pezzi di capannone in leasing. Ho finito di pagarlo nel 2005. Ma sono le macchine che mi premono. La più importante è una Wohlenberg con dispositivo speciale. Avete presente i libri con le bandelle? Fa tutto in automatico, in un colpo solo. Non ce ne sono altre in Emilia Romagna, neanche a Bologna. La più vicina è a Padova. Costa un milione e 200mila euro. Finirei di pagarla nel 2014. E anche le altre macchine… Nessuna è sotto i centomila euro… O le tiriamo fuori, o è tutto finito. Faccio riviste, pieghevoli, giornali di promozione Ipercoop, cataloghi di ceramiche. E ora mi ero aggiudicato lavori importanti nella moda, come i cataloghi di Max Mara. Ma con il terremoto ho perso tutte le commesse…». E c’è una stoccata pure per i giornali: «Cercano solo i bei simboli. Qua nelle zone industriali non ci sono belle torri e orologi storici rotti, così non fanno nemmeno la fatica di venire quando ci sono i morti».

Anche Luigi Mai della Ptl (azienda del biomedicale con 37 anni di attività) ha perso il capannone con il terremoto del 20. «Era nuovo», racconta, «appena sei anni e mezzo, ed è venuto giù come fosse di burro. Per fortuna non lontano ce n’era uno molto vecchio, oltre 50 anni, di quelli in metallo, che non ha subito danni. Siamo riusciti a salvare le macchine, a sfilarle da sotto e a trasportarle là. Abbiamo ripreso la produzione a tempo record con i nostri 50 dipendenti. Poi, con la nuova scossa l’abbiamo interrotta di nuovo, per la paura».
Mai è anche segretario della Cna modenese e può fare il quadro della situazione: «È andato giù più del 90% dei capannoni. È una strage. Stavolta il terremoto è capitato in orario di lavoro e per questo ci sono stati più morti. I capannoni dove si lavorava avevano avuto tutti l’agibilità da parte della protezione civile. In altri casi, invece (come alla Aries, dove è morto il titolare, ndr) c’era personale dentro con i Vigili del fuoco per mettere in sicurezza o svuotare i magazzini. Non riusciamo a capacitarci della fragilità dei capannoni. È una brutta grana. Non essendo la nostra mai stata dichiarata zona sismica, hanno una grandissima resistenza quanto a pesi in appoggio, ma non sopportano le scosse. Anche quelli costruiti dopo il 2005, con regole un po’ più stringenti, non possono sopportare un sisma così violento. Ci stavamo risollevando dalla crisi, soprattutto nella meccanica… E ora questa bastonata… Ho perso colleghi, amici come il titolare della Bdg, rimasto sotto le macerie con i suoi dipendenti. Il biomedicale di Mirandola incide per il 25% sulle esportazioni totali della provincia di Modena. Dà lavoro a tantissime famiglie. A spanne, i danni superano già i 2 miliardi di euro solo nella zona industriale di Mirandola, ma il bilancio è destinato a salire. Adesso serve un nuovo modo di costruire capannoni più sicuri, che non si trasformino in trappole, e un intervento massiccio dello Stato. Stavolta Roma deve mettere mano al portafogli. E in tutta fretta. Quello che decide sul nostro futuro è il tempo. Se ne passa troppo, non ci risolleviamo più. Diventeremo un pezzo di Bassa Italia in mezzo alla Pianura Padana».