La Cina censura il web: non il dissenso ma la mobilitazione

La Cina censura il web: non il dissenso ma la mobilitazione

Il cambiamento di prospettiva è radicale, una sorta di rivoluzione copernicana negli studi sulla repressione online. Ed è di straordinaria importanza, perché riguarda il sistema di censura della rete più sofisticato al mondo: quello cinese. Finora la teoria più diffusa era quella della «critica allo Stato»: a venire rimossi sono i post in contrasto con la vulgata del Partito Comunista. Tre ricercatori di Harvard, tuttavia, hanno appena pubblicato uno studio (How Censorship in China Allows Government Criticism but Silences Collectiv Expression) che dimostra il contrario. Opinioni favorevoli e contrarie hanno la stessa probabilità di essere censurate. Ciò che fa la differenza, e che davvero interessa alle autorità, è il potenziale di mobilitazione sociale («collective action potential», nella ricerca) dei post reperibili in rete. Maggiore è la capacità di un commento su un blog o un forum di mobilitare le masse, maggiore è la probabilità di vederla scomparire dal web cinese.

«Il bersaglio della censura sono le persone che si ritrovano per esprimersi collettivamente», scrivono Gary King, Jennifer Pan e Margaret Roberts, «stimolati da un soggetto altro dal governo, e che sembrino avere il potenziale di generare azioni collettive». Su tutte, le proteste – fuori dalla rete, nelle piazze e per le strade. Gli autori affermano di averne fornito la prima dimostrazione empirica, confermando tra l’altro la natura manuale, selettiva e “intelligente” della censura già riscontrata nei risultati ottenuti dai ricercatori della Carnegie Mellon di Chicago – e già raccontati da Linkiesta – per quanto riguarda i microblog cinesi. Di cui lo studio in esame non si occupa, concentrandosi invece sull’analisi di un totale di 11.382.221 di post provenienti da 1.382 siti in lingua cinese (tra cui i principali sono blog.sina – da cui viene il 59% dei post – hi.baidu, voc, bbs.m4, e tianya).

Precisando che la metodologia impiegata non può tenere conto dell’auto-censura così come del filtro della “Grande Muraglia Elettronica”, i ricercatori stabiliscono un livello di base per la censura del 13% del totale dei post pubblicati. E notano che i post a contenuto politico più «sensibile» non subiscono tassi di eliminazione particolarmente diversi da quelli più innocui. «Chiaramente la spiegazione è un’altra», notano gli autori. Che passano dunque a studiare il livello di censura durante i momenti di esplosione di conversazioni su argomenti che riguardano «proteste o la formazione di folle organizzate fuori da Internet», «individui che hanno organizzato o promosso azioni collettive sul terreno in passato» e «argomenti collegati al nazionalismo o a sentimenti nazionalisti che hanno suscitato proteste o azioni collettive in passato».

Ed ecco la scoperta: mentre le esplosioni di conversazioni («volume burst») riguardanti potenziali proteste e azioni collettive vengono censurate, quelle scatenate da reazioni “passive” a politiche del governo e a notizie di attualità non lo sono. Certo, anche questi temi sono oggetto di censura. Ma sempre allo stesso modo, indipendentemente dai picchi nel volume dei post che li riguardano. E in ogni caso, ed è singolare, molto meno delle critiche ai censori. Un altro argomento sempre fortemente censurato è la pornografia. Ma i tassi più alti riguardano espressioni locali che possono dar luogo a proteste: su tutti, i post riguardanti le rivolte in Mongolia e l’arresto di Ai Weiwei.

Stupisce poi che il tasso più elevato di censura riguardi un evento tutt’altro che politico: la corsa al sale dopo l’incidente nucleare di Fukushima, causata dalla diffusione della voce nella provincia di Zhejiang che lo iodio, contenuto appunto nel sale, potesse proteggere dalle radiazioni. La voce era naturalmente falsa, ma il potenziale di azione in essa contenuto dava fastidio alle autorità. Che così l’hanno fatta sparire, sostengono gli autori. Del resto, scrivono, «in tutti gli eventi categorizzati tra quelli con un potenziale di azione collettiva, la censura durante l’evento è più probabile che al di fuori dell’evento». E in ogni caso quegli eventi sono in media più censurati degli altri.

A fornire la principale verifica dell’ipotesi dei ricercatori di Harvard, tuttavia, è il fatto che per eventi a forte potenziale di azione collettiva, come le proteste in Mongolia, il tasso di censura è elevato sia per i post a contenuto critico nei confronti del governo, sia per quelli che invece sono in accordo con i dettami del regime. E sono bassi, ma allo stesso modo per favorevoli e contrari alle autorità, per quelli che hanno basso potenziale di azione collettiva: per esempio, la politica del governo del figlio unico e quella sulla corruzione.

Fig.1 – Il verificarsi di eventi ad alto potenziale di azione collettiva aumenta contemporaneamente i commenti in rete e i tassi di censura.

Fig.2 – Il verificarsi di eventi a basso potenziale di azione collettiva aumenta i commenti in rete ma non i tassi di censura.

Prima di concludere, gli autori aprono un filone di ricerca dai risvolti potenzialmente interessanti: «qui l’idea», spiegano, «è che se la censura è una misura dell’intenzione di agire, allora dovrebbe avere un qualche utile valore predittivo». Interessante soprattutto per eventi non previsti dai media, come appunto l’arresto di Ai Weiwei, l’accordo sulle dispute per il petrolio nel Mare Cinese Meridionale con il Vietnam o lo scandalo riguardante l’ex potente dirigente del partito, Bo Xilai. In tutti e tre i casi il livello della censura nei cinque giorni precedenti sembra un buon predittore di ciò che sarebbe successo.

Fig. 3 – Il tasso di censura nei cinque giorni precedenti un evento inatteso è un predittore delle intenzioni delle autorità cinesi.

Per l’artista dissidente e l’ex leader di Chongqing si osserva un’impennata nei tassi di eliminazione dei post, facendo presagire un’azione imminente da parte delle autorità. Nel caso dell’accordo di pace con Hanoi, invece, già nei giorni precedenti la censura diminuisce sensibilmente: segno che la decisione era già stata presa. I risultati, in sostanza, sembrano confermare l’ipotesi della ricerca. Ma, precisano gli autori, «abbiamo condotto l’analisi retrospettivamente, e con solo tre eventi». Presto per tirare conclusioni, ma certo se monitorare la censura in tempo reale portasse a rivelare i piani del regime, forse gli attivisti sarebbero in grado di meglio aggirarne i blocchi. E gli stessi censori scoprirebbero di stare impugnando un’arma a doppio taglio.

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