Patrizia Moretti ha passato sette anni ad aspettare la giustizia, con una fiducia quasi sovrumana. Quando suo figlio, Federico Aldrovandi, morì, fu avvisata cinque ore dopo la constatazione del decesso. In ospedale le dicevano che si era trattato di un malore, ma le botte sul corpo del ragazzo si vedevano troppo bene e i dubbi che l’hanno portata fino alla condanna di quattro agenti di polizia sono arrivati subito. Su quel corpo di diciottenne erano stati rotti due manganelli la notte 25 settembre 2005. Il cuore, poi, avrebbe smesso definitivamente di battere a causa di una «asfissia da posizione», causata dal torace schiacciato per terra dalle ginocchia degli agenti di polizia. Una settimana fa, la vicenda giudiziaria si è finalmente conclusa, i quattro poliziotti sono stati condannati a tre anni e sei mesi di reclusione – ma niente carcere, a causa dell’indulto – per «eccesso colposo in omicidio colposo».
Patrizia Moretti, ora non si dovrà più parlare di “caso Aldrovandi”, ma di “omicidio Aldrovandi”.
É proprio così. Quel pochissimo di giustizia possibile è arrivata. Per noi, non è importante la consistenza delle condanne, già il fatto che siano arrivate vuol dire moltissimo. Adesso, però, quegli agenti devono perdere la divisa che indossano.
Un anno fa avete incontrato il capo della polizia, Giorgio Manganelli, avete parlato anche di questo?
Sì, lui venne qui in occasione della festa nazionale della polizia e incontrò me e la mia famiglia. Noi glielo dicemmo subito: quei quattro sono accusati di omicidio, li avreste dovuti sospendere da subito. Ci fu risposto che una cosa del genere è possibile soltanto dopo una condanna definitiva. Adesso, è arrivato quel momento.
Malgrado la decisione della Cassazione, il clima continua a essere pesantissimo. Paolo Forlani, uno dei poliziotti condannati, ha detto cose pesantissime su Facebook.
Questo è un clima che ci accompagna da quando morì Federico, il 25 settembre del 2005. É un atteggiamento che abbiamo scontato sulla nostra pelle. I sindacati di polizia ci chiamavano sciacalli, in giro dicevano cose terribili su di me, mi minacciavano: “stai molto attenta che hai tanto da perdere”. Anche gli amici di Federico si sono trovati in brutte situazioni, quando uscivano, spesso, venivano seguiti dalla polizia, oppure trovavano degli agenti ad aspettarli davanti casa. Era un clima intimidatorio. Onestamente, credevo che dopo la sentenza definitiva, tutto questo sarebbe cessato, invece è andato peggiorando. Per quanto mi riguarda, comunque, quelle parole scritte su Facebook denotano soltanto di che pasta sono fatti quegli agenti. Si ritengono al di sopra della legge, eppure dovrebbe essere proprio la legge a essere il loro credo. Anche la donna che gestiva quella pagina (Simona Cenni, presidente di “Prima Difesa”, gruppo di supporto legale per gli agenti sotto processo, ndr) ha detto delle cose assurde, addirittura ritiene di poter confutare mille perizie, emettendo lei stessa la sentenza. Siamo davvero al paradosso.
Così, dopo sette anni ha deciso di querelare. Perché soltanto adesso?
Perché qualunque cosa sia accaduta e qualunque cosa accadrà, la cosa peggiore è stata l’omicidio di Federico, noi andiamo avanti di conseguenza, non ci faremo fermare da nulla. Un primo passo è stato fatto, ci hanno dato ragione e la verità finalmente è uscita fuori. Ma la vera giustizia arriverà soltanto quando quegli uomini si toglieranno di dosso la divisa.