L’Italia per De Gaulle: “Non un paese povero, ma un povero paese”

L’Italia per De Gaulle: “Non un paese povero, ma un povero paese”

“Noi abbiamo fatto la rivoluzione” rivendica il francese. “Sì, ma noi in casa abbiamo il bidet”, ribatte l’italiano. Anche i confronti transalpini più articolati rischiano di finire così. Paghiamo contiguità geografica e contaminazioni storiche. Siamo i più esposti a quella “certaine idée de la France” (Charles de Gaulle), che ancora oggi con la grandezza del suo destino si porta dietro come un diritto inalienabile tra le nazioni d’Europa un carico di “eccezioni” – economiche, politiche, culturali – che possono schiacciarci. Così coltiviamo in proporzioni mutevoli risentimento e ammirazione.

I nostri complessi d’inferiorità si combinano ai loro complessi di superiorità. “Nell’immaginario degli italiani – scrissero Mario Monti e Franco Bassanini, orgogliosi di essere stati chiamati nel 2007 da Nicolas Sarkozy a far parte della Commissione Attali – la Francia è una sorta di fratello maggiore, dal quale abbiamo imparato molte cose, spesso non riuscendo a imitarle con lo stesso successo; un fratello maggiore abituato a guardarci dall’alto in basso, fiero della sua superiorità, chiuso in un’autoreferenzialità venata di sciovinismo”.

Anche senza appellarci all’antichità, potremmo però rivendicare la nostra azione pedagogica nella formazione della loro grandeur. I fuoriusciti italiani alla corte di Caterina de’ Medici, oltre a insegnare ai francesi a cucinare e a mangiare con la forchetta, esportarono i principi di governo del macchiavellismo. Ed è stato il Cardinale Mazzarino a spiegare al giovane Luigi XVI l’importanza di spezzare le fronde “des importants”. Abbiamo coltivato lì il senso dello Stato che a noi manca, per poi modellare il nostro Stato sul loro, bandiera e lingua degli unificatori comprese. Subiamo l’influenza tanto della vocazione universalista della Francia (che porta Eleonora de Fonseca Pimentel sul patibolo a Napoli nel 1799), quanto della sua capacità di difendere gli interessi della nazione (che porta Jacopo Ortis al suicidio dopo il “tradimento” di Campoformio). Interessi nazionali spesso destinati a competere con i nostri, quando li riconosciamo, sugli stessi campi di gara.

Almeno le rivendicazioni territoriali le abbiamo archiviate. Nessuno in Italia canta più “se la Francia non è una troia, Nizza e Savoia ci deve dare”, come facevano i giovani fascisti. Ma il contorno delle nostre frontiere dopo il conflitto poteva essere assai diverso. Per “lavare sul terreno l’oltraggio subito”, Charles De Gaulle progetta sin dal 1944 di “portare l’offensiva sul territorio italiano”, non volendo concludere le ostilità su un confine “mal tagliato”. Dopo il 25 aprile, due divisioni francesi occupano la Valle d’Aosta e quelle piemontesi quasi fino alle porte di Torino. Solo dopo un braccio di ferro con gli anglo-americani il Generale rinuncia ai più ambiziosi propositi di annessione. Gli rimase il disprezzo verso l’Italia – “non un paese povero, ma un povero paese” – che tornato al potere provò a escludere dalle cabine di regia euro-atlantiche.

Lungo quelle frontiere continuiamo a combattere saltuarie battaglie patriottiche. Una competizione che si è inasprita durante la presidenza di Nicolas Sarkozy, in linea con quanto è accaduto nel resto d’Europa, dove la crisi ha liberato dall’involucro comunitario gli istinti nazionalisti. L’Italia ha patito il protagonismo francese in diversi campi, dallo “shopping” delle nostre imprese alla guerra transalpina scoppiata a margine dell’operazione libica. E come è accaduto spesso nel dopoguerra, l’Eliseo ha ravvivato la nostra sindrome da esclusione dai direttori di cui siamo ansiosi di far parte.

Resistono diversi ambiziosi progetti comuni, primo fra tutti la Tav, che il ministro dei Trasporti Thierry Mariani considera “uno dei più importanti, se non il più importante per la Francia e per l’Italia” ed è sostenuta anche dal neo-presidente François Hollande. E l’esultanza bipartisan per la vittoria del socialista, che potrebbe aiutarci a non morire virtuosamente tedeschi, conclude un quinquennio che era iniziato con una trasversale sbandata per Nicolas Sarkozy e la sua “rupture”. Nella speranza che se il post-gollista fosse riuscito a riformare l’irriformabile Francia, anche l’Italia avrebbe potuto seguire la stessa strada.

Il mito della “rupture”

IIl partito sarkozista che si forma in Italia in occasione delle presidenziali del 2007 trova seguaci soprattutto tra i detrattori del “doroteismo chiracchiano”, considerato espressione di un paese bolso e refrattario al cambiamento. Idealista e atlantista in politica estera, anglosassone nella sua volontà di rinnovare il modello sociale francese, Nicolas Sarkozy sembra invece intenzionato a raccogliere il testimone riformista da Tony Blair. Se “l’ouverture à gauche” è confermata dall’ingresso a Quai d’Orsay di Bernard Kouchner, “la rupture liberale” trova il suo cavallo di battaglia nella Commissione per la liberazione della crescita francese guidata dal mitterrandiano Jacques Attali. Un laboratorio che da noi, annotano Franco Bassanini e Mario Monti, “genera un’attesa perfino maggiore che in Francia”, che i commissari italiani spiegano con il “comune timore con cui Francia e Italia vivono l’epoca della globalizzazione (…) dovendo affrontare e vincere le stesse sfide”. Mario Monti sottolinea però una differenza cruciale tra i due Paesi. In Francia c’è “una forte resistenza intellettuale e culturale verso riforme strutturali che prevedono più liberalizzazioni e concorrenza”. L’Italia invece non ha bisogno di “questa opera di pedagogia”, ma pesa “l’incapacità del sistema politico (…) strutturalmente debole rispetto a lobby e corporazioni”.

La spinta liberalizzatrice del presidente francese Sarkozy, però, in modo simile a quella del ministro italiano Bersani, si ferma presto di fronte a un manipolo di tassisti. E Franco Bassanini avverte che il venire meno dell’esempio virtuoso «costituirebbe un problema per tutti noi, perché la conservazione trasversale in Italia direbbe: non c’è riuscito lui con i poteri che ha, a fare le riforme, volete che ce la facciano Veltroni e Berlusconi?” Né Sarkozy, né Berlusconi. Complice la crisi, la “rupture” si arena e produce riforme malcotte. Ma l’illusione del cambiamento non può essere addebitata solo a Sarkozy. L’ansia di trovare oltralpe risposte ai nostri problemi genera frequenti equivoci (nelle due direzioni, se è vero che in Francia è ancora diffusa la convinzione che l’Italia sia stata scossa negli anni ‘70 da una guerra civile).

La stessa “rupture” gollista che portò alla nascita della Quinta Repubblica fu giudicata trasversalmente in Italia alla stregua di un golpe. Una valutazione che da noi contribuì a spingere la crisi del parlamentarismo verso uno sbocco politico, il varo del centro-sinistra, piuttosto che istituzionale. Nel suo La Repubblica dei Partiti, Pietro Scoppola sottolinea l’importanza che ha nell’incomprensione italiana del ’58 francese il diverso senso della cittadinanza nei due paesi: debole da noi, dove si è altro prima di essere italiani, molto radicato in Francia dove attorno ai valori “repubblicani” si ritrova idealmente tutta la nazione, e non dà quindi all’appello al di sopra delle divisioni un connotato “fascista”.

Con Sarkozy si mette in moto un meccanismo diverso. La patente di liberale gli viene concessa sulla fiducia da un’Italia che aspira a un modello bipartisan di modernizzazione. La sua presidenza illustra semmai un’influenza nel senso opposto, come aveva intuito il sociologo francese Pierre Musso che coniò il termine “sarko-berlusconismo” per definire “il nuovo centauro politico-imprenditoriale”.

Da questo punto di vista la “rupture” sarkozista sta innanzitutto nell’interpretazione ipercinetica data alla carica presidenziale, che neanche a Parigi produce una piccola rivoluzione liberale. E più della “ouverture” a sinistra, nella strategia di Nicolas Sarkozy sin dal 2007 pesa quella verso le parole d’ordine lepeniste, una “rupture” vera, questa sì, del patto repubblicano sempre rispettato dal “reazionario” Chirac. Archiviate le velleità di cambiamento dell’Eliseo, chi cerca ispirazione oltralpe nel tardo periodo sarko-berlusconiano è tornato alla tradizione, appellandosi al “colbertismo” proprio per contenere la presunta invasione francese.

Colbertisti de noantri

La battaglia per la difesa delle nostre aziende viene lanciata nella mischia elettorale del 2008 da Silvio Berlusconi, che a pochi giorni dal voto si oppone al passaggio di Alitalia nelle mani di Air France. E malgrado la sua fragile ratio economica, il richiamo patriottico paga in termini di popolarità perché il valore dell’italianità esprime una “legittima difesa contro le insidie che vengono da altrove” .

Il timore di farsi comprare è una costante nei rapporti transalpini. La Francia se la prende con la rapacità dei commercianti lombardi e dei banchieri genovesi sin dal medioevo. E l’ostilità, spiega lo storico Jean-François Dubost in La France Italienne , s’impenna nei periodi di disordine e debolezza dello Stato, come nella seconda metà del ‘500, quando Simon Goulart lamenta la trasformazione del paese in “una Franci-Italia, colonia e fogna degli italiani”. Ci pensò poi il ministro del Re Sole Jean-Baptiste Colbert ad affermare la preminenza dell’interesse nazionale anche in economia. E da allora il sostegno all’industria autoctona è un filo conduttore della politica francese che nessuna “rupture”, e neanche l’evoluzione del mercato comune europeo, è riuscito del tutto a spezzare.

L’Italia s’ispira a questa tradizione quando la scalata di Parmalat da parte della francese Lactalis nelle ultime due settimane di marzo 2011 “fa traboccare il bricco” come scrive il quotidiano finanziario Les Echos, irridendo “le illusioni del patriottismo economico italiano” . Furori che non dovrebbero stupire i francesi, visto che per non cedere le cave di Roquefort alla finanziaria Ifint del gruppo Agnelli, il governo Cresson all’inizio degli anni ‘90 benedice una contro-Opa capeggiata dalla svizzera Nestlé. E quando Pepsi nel 2005 tenta l’assalto a Danone, la Francia vara una legislazione che permette all’esecutivo di bloccare le Opa nei settori strategici, che userà due anni dopo per impedire l’acquisizione di Suez da parte di Enel.

La disfida dei latticini agita una classe dirigente preoccupata dalla vulnerabilità dell’Italia di fronte all’avanzata dei francesi. La multinazionale del lusso di Bernard Arnault (LVHM) si è portata a casa Bulgari. Edf ha assunto il controllo di Edison.

Parmalat diventa così una causa nazionale attorno alla quale ricostruire una strategia in difesa dei nostri fragili campioni. E per contrastare la Francia, Tremonti la prende a modello, annunciando che “presenteremo all’Ue un disegno di legge identico a quello dei francesi, anzi, lo presenteremo scritto in francese” . Il ministro vuole al contempo trasformare la Cassa Depositi e Prestiti in uno strumento d’intervento sulla falsariga della Caisse des Dépôts et Consignations, dotandola della possibilità di fare “un fondo identico a quello strategico francese”. Ma il governo italiano ne esce malconcio, scavalcato dall’Opa che Lactalis lancia nel giorno in cui si svolge a Villa Madama un bilaterale Berlusconi-Sarkozy.

A margine del caso Parmalat in Italia si apre un confronto tra “colbertisti francesi” e “liberali anglosassoni”. Antonio Martino alla Camera irride “la bizzarra proposta mercantilista” spiegando, classici alla mano, che “quando è una società estera a fare shopping in Italia, c’è un afflusso di capitali che fa bene alla nostra economia” . Anche Mario Monti se la prende con i “colbertisti de noantri” , che alzano barriere “goffe e inefficaci” in settori non strategici. Salvo poi, una volta a Palazzo Chigi, modellare su quella francese la normativa italiana sulla “golden share”.

Il flusso degli investimenti bilaterali non conferma il timore di un’invasione, vista anche la nostra ridotta capacità di attrarre capitali dall’estero. E nel 2011 l’Italia è seconda in Europa per progetti sviluppati in Francia, dove più degli altri rileviamo aziende in difficoltà. Nello stesso anno, però, 108 imprese italiane sono passate in mano straniera e cinque dei primi dieci affari sono stati realizzati dai gruppi francesi. In Francia, invece, le acquisizioni italiane di peso sono un ricordo. E lo sbarco delle piccole e medie imprese ha tutt’altro impatto sul “sistema paese”.

Il confronto con la Francia acuisce in una parte della classe dirigente il rimpianto per il vuoto lasciato dalle politiche di privatizzazione che hanno spezzettato le grandi imprese pubbliche. Parigi invece, sottolinea Francesco Forte, “ha mantenuto pressoché tutte le sue imprese pubbliche e le ha anzi potenziate”, e protette con leggi che l’Europa accetta perché “la Francia è più uguale degli altri” .

E la Francia secondo Gianfranco Polillo mette le sue eccezioni al servizio di una “politica di potenza” che si traduce in “un’Opa sull’Italia” . Parigi non ha dati macro tali da sovrastarci, spiega il futuro sottosegretario all’Economia, ma ha “un establishment unito nella difesa della casa comune”, in confronto al quale l’Italia è “un po’ come la Polonia nel secondo conflitto mondiale: facilmente accessibile per le truppe d’occupazione”. E l’avanzata francese mette nel mirino tanto i nostri marchi quanto le “nostre” risorse energetiche sulla sponda sud del mediterraneo.

La guerra nel cortile di casa mediterraneo.

“Guardate, Tunisi è là (…) E ci sono i francesi là, che ce l’hanno presa a tradimento! E domani possiamo averli qua, in casa nostra” s’infuriava Mauro Mortara nel pirandelliano I vecchi e i giovani. Una frustrazione ricorrente, perché la nostra sospirata “quarta sponda” è considerata dalla Francia un cortile di casa dove anche nel periodo post-coloniale può esercitare la sua influenza.

Mortara s’indignava per lo “schiaffo di Tunisi” inferto a Roma, che nella seconda metà dell’ottocento colonizza la Tunisia senza occuparla, per vedersela poi soffiare dalla Francia. Centotrenta anni dopo, temiamo che i francesi vogliano scalzarci dalla “nostra” Libia. E se nel 1881 l’Italia era convinta che ci avrebbero pensato i britannici a dissuadere la Francia, nel 2011 abbiamo sperato che la riluttante superpotenza americana potesse ingabbiare il protagonismo di Nicolas Sarkozy.

I riflessi francesi nel momento in cui s’incendia il Nord Africa peraltro sono lenti quanto i nostri. Il ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie che pochi giorni prima della fuga di Ben Alì offre al regime tunisino “il savoir-faire francese nel gestire situazioni di ordine pubblico” surclassa Franco Frattini che indica in Muammar Gheddafi un modello di riformismo . Neanche sulla Libia è immacolato il curriculum del presidente francese, che nel dicembre 2007 è stato il primo leader europeo a offrire al qaid libico una piazzola per la sua tenda, nel giardino dell’Hotel Marigny a Parigi. Sono pessime credenziali per chi vuole incidere sul mondo arabo in trasformazione.

La Libia offre a Nicolas Sarkozy un’opportunità di riscatto, anche in vista delle presidenziali. E rispetto all’Italia, la Francia ha meno problemi a “disturbare” Gheddafi . Noi temiamo di perdere le posizioni acquisite, loro possono sfruttare il cambiamento, come nel 1970, quando dopo la cacciata degli italiani Parigi vendette a Tripoli un centinaio di “Mirage”.

Sarkozy non è però solo a caccia di buoni affari. L’interventismo è innanzitutto un esercizio di leadership globale che punta a rafforzare la proiezione strategica francese nel Mediterraneo. L’idea di una guerra per il “nostro” petrolio è riduttiva. Riflette le dinamiche della politica estera italiana, spesso trainata da alcune grandi aziende che determinano l’interesse nazionale, più di quella francese, dove il primato politico-strategico ancora resiste. E in quella primavera porta l’Eliseo a intervenire anche in Costa d’Avorio, impegnando la Francia su due fronti in un continente che attrae solo il 2% dei suoi investimenti diretti .

Sullo scenario libico, Roma e Parigi si muovono ciascuno seguendo la propria tradizionale interpretazione dell’atlantismo.. Al gollista ritrovato Sarkozy la Nato sta stretta. E una volta ottenuta una copertura multilaterale alla missione, il francese dà il via unilateralmente al conflitto. L’Italia è costretta a rincorrere e punta sugli Stati Uniti per contenerlo.

Il disimpegno obamiano non gioca a nostro favore. Il (mezzo) passo indietro di Washington, più che a un virtuoso “burden-sharing” atlantico, dà luogo a una classica competizione intra-europea. Quarantotto ore dopo l’inizio dell’intervento, scoppia la gazzarra italo-francese sul comando della missione, che Parigi vorrebbe affidare a un comitato slegato dal consiglio Nord Atlantico. La Francia perde la battaglia diplomatica, perché gli anglosassoni alla struttura Nato ci tengono, ma prova a escluderci dagli informali “formati” ristretti.

Terminato il conflitto, Parigi rivendica un diritto prioritario alla ricompensa dovuta ai liberatori. “Ognuno è pronto a trarre il suo tornaconto – dichiara il ministro della Difesa Gerard Longuet il giorno della morte di Gheddafi – ma i francesi non si sono impegnati in modo tardivo, mediocre e incerto, né hanno qualcosa da farsi perdonare” .

La distribuzione dei dividendi tra i vincitori è ancora incerta. Il quotidiano francese Libération ha dato notizia di una lettera, datata 3 aprile 2011, nella quale i ribelli promettevano alla Francia il 35% del greggio prodotto dal Paese in cambio del sostegno al Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt). L’impegno è stato poi smentito, e nuove concessioni verranno appaltate solo al termine del periodo di transizione. Total e Eni ostentano ottimismo, ma la recente apertura di un’inchiesta del Cnt sulla trasparenza degli accordi firmati durante l’ultimo triennio gheddafiano, secondo il Wall Street Journal “getta un’ombra sulle ambizioni delle compagnie di espandere la loro presenza nel paese” . Al netto dei barili di petrolio che ne potrebbero derivare, la missione riserva dure lezioni anche alla Francia. Sarkozy in Libia si è guadagnato la palma del liberatore, ma senza la potenza di fuoco degli Stati Uniti, la Nato in versione anglo-francese avrebbe faticato a portare a termine il lavoro.

L’unilateralismo sui generis della Francia ha i piedi d’argilla. E la competizione franco-italiana nel Mediterraneo rischia di vedere soccombere entrambe di fronte agli intraprendenti Qatar e Turchia, più in sintonia con la nuova leadership araba. La rivalità transalpina all’interno della Ue lascia spazio a un partenariato che punta a spostare le risorse comunitarie da nord-est, dove le indirizza la bussola tedesca, verso sud. Un riequilibrio strategico dell’Europa che passa dall’aumento dei fondi destinati al mondo arabo dalle politiche di vicinato e dal rafforzamento dei club regionali, inclusa l’Unione per il Mediterraneo cara a Nicolas Sarkozy, pensata per l’Ancien Régime arabo, ma rilanciata per la nuova stagione.

Lo stesso impasto di competizione e partnership segna i rapporti bilaterali quando si moltiplicano gli sbarchi dall’Africa. La Francia che dopo il collasso di Lampedusa chiude la frontiera di Ventimiglia chiedendo il rispetto formale di Schengen, per una fetta del mondo politico italiano – e della nostra opinione pubblica – è l’espressione di un’Europa che “non ci aiuta” e dalla quale “possiamo anche uscire” (Roberto Maroni dixit). Ma sottoposti alla pressione leghista-lepenista, Roma e Parigi finiscono col promuovere insieme una revisione del trattato di libera circolazione, che scuote un pilastro della costruzione europea, proprio mentre si aggrava la crisi dell’eurozona.

L’Italia nella crisi della “Francia in grande”

L’eredità gollista non si liquida facilmente. “L’Europa è la Francia in grande” titolava ancora nel 2007 un manifesto elettorale dell’Ump di Nicolas Sarkozy, fedele alla visione del Generale secondo il quale “la Francia è il cocchiere, la Germania il cavallo”. E noi? Come gli altri, destinati a seguire. Non stupisce che questa versione dell’integrazione europea sin dalla fine degli anni ’50 abbia suscitato la diffidenza italiana. Ma già quindici fa, quando Jacques Chirac voleva posticipare l’ingresso dell’Italia nell’unione monetaria molti lo consideravano un portavoce della Bundesbank di Hans Tietmeyer . E i residui dell’Europa francese sono scomparsi nella gestione della crisi, dettata dalle priorità tedesche.

Mai come in questo quinquennio, però, abbiamo sofferto oltre ai diktat di Berlino, anche gli atteggiamenti guasconi del presidente francese, culminati nella sghignazzata sull’affidabilità del nostro governo al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. La Francia peraltro ha ottimi motivi per preoccuparsi. Nel momento più acuto della nostra crisi, le sue banche detengono oltre il 30% del debito italiano. E il progressivo aumento dello spread tra titoli francesi e tedeschi allarma Parigi, che teme un effetto domino. All’Eliseo prevale allora nei nostri confronti un sentimento simile a quello espresso dalla nostra classe dirigente quando assicura che “non siamo come la Grecia” : la cupa consolazione tratta dal sapere che c’è sempre qualcuno più terrone di te.

La crisi di “Merkozy” e il ritorno del governo italiano al tavolo dei decisori europei annunciano una sterzata nei rapporti bilaterali, favorito dal cambio della guardia all’Eliseo. E non tanto perché “con Sarkozy se ne va un nemico dell’Italia”, come titola Il Messaggero all’indomani del voto. Su François Hollande scommette un trasversale “partito della crescita” per correggere il miope rigore di Angela Merkel. Uno scenario poco realistico, però, se il neo-presidente proporrà di superare la crisi solo con una politica espansiva, rinviando sine die ogni forma di “rupture” strutturale. Potrebbe allora toccare all’Italia dell’ex sarkozista Mario Monti condurre Francia e Germania verso la retta via. O almeno piace pensarlo, scrollandoci di dosso i nostri complessi.

*da Limes in edicola in questi giorni

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