Ray Douglas Bradbury
(22 agosto 1920 – 5 giugno 2012)
Scrittore americano, mezzo svedese, più che celebre, e preoccupato per il futuro spirituale del genere umano. Un colpo d’amore, a 7 anni, per Edgar Allan Poe, un’attitudine, per tutta la vita, da topo di biblioteca e da grafomane, e soprattutto un’immaginazione proiettata sulle infinite possibilità d’azione e di distruzione (sulla Terra e fuori), lo hanno reso un umanista estremo e particolare. Che detestava l’eccesso di materialismo, il proliferare compulsivo di tecnologia, l’idolatria verso la scienza, e verso il governo, o il potere. Con questi caratteri, ha scritto “Cronache marziane” (1950), “Farenheit 451” (1953), “Pioggia senza fine” (1959), e un insieme di 500 racconti, una trentina di romanzi, e diversi testi teatrali e sceneggiature per il cinema e la tv. Dove la materia proiettata e rielaborata in modo esemplare, è anche un mosaico di scienza onnipotente, di tecnologia ossessiva, di poteri pericolosamente aggiornati, e di uomini e donne sudditi di tutte queste cose. Sulla Terra e fuori.
Da accantonare, per una volta, il termine “fantascienza”. Bradbury lo metteva anche lui da parte, essendo sostanzialmente un coinvolto negli esseri umani, più che nelle loro repliche fantascientifiche: «La cosa più importante è di consacrare il proprio tempo a diventare se stessi». Sono diventati se stessi, attraverso i loro libri, Dickens, Melville, Kafka: sono gli autori, con altri, condannati al rogo delle loro opere – perché «leggere è un reato» – in “Farenheit 451”. Diventano se stessi – nel libro e nel film omonimo di Francois Truffaut (del 1966) – i pochi e le poche che si oppongono a quell’ordine, imparando a memoria quelle pagine, ricordando parola per parola. E sono se stessi i governanti “democratici”, e i loro esecutori – i vigili del fuoco – che imperversano in quei roghi.
Bradbury ha una visione molto reale, e decisamente in avanti: il disprezzo pianificato verso il sapere e verso la sua gratuità per tutti. Milioni di pagine date alle fiamme: la carta dei libri, la loro forma relativamente recente (poco più di mezzo millennio) ha dato vita anche a Ray Bradbury, e infatti lui ha rifiutato fino all’ultimo di pubblicare su supporti elettronici tutto quello che aveva scritto. Dalla tentacolare famiglia tecnologica, e dalla sua inarrestabile capacità di figliare e di farsi consumare, si è tenuto alla larga con la grazia di un “poeta inquieto” (così lo ha centrato il quotidiano francese “Libération”): troppi telefoni cellulari, e troppo Internet, secondo lui.
Gli dobbiamo, in fondo, anche l’uso traslato del termine “marziano” – quando si inciampa in qualcuno o in qualcosa di incomprensibile, o di estraneo, all’umanità – e quindi un avvertimento, una denuncia, e un invito a tornare all’essenziale. Detto a chiare lettere: «Nella vita, come nella scrittura, bisogna agire con passione. La gente vuole che siate onesti, e così vi perdona molte cose».
Con l’onestà, e la passione, di un umanista tutt’altro che sorpassato, ha augurato – in particolare al suo Paese – nuove e incrociate frontiere: una “rivoluzione” politica per farla finita con l’eccesso “di governo”, e il ritorno sulla Luna. Per piazzarci una base, e da lì partire per Marte. Dove i marziani – è certo – non esistono.
Pierre Ceyrac
(4 febbraio 1914 – 30 maggio)
«Father Ceyrac», come era conosciuto in tutta l’India: un missionario gesuita francese, con un fisico descritto come un «albero secco», che per oltre 80 anni, ha voluto vivere per i più poveri, i più “intoccabili” (o dalit), e i più tormentati dalla vita in quel Paese. Definirlo un santo sarebbe offenderlo: è stato un uomo continuamente pratico e pieno di compassione terrena. Da uomo a uomini – milioni – e famiglie, ridotti ai minimi termini della sopravvivenza. Diversamente da Teresa di Calcutta, è stato impermeabile all’estetica della povertà, e alla pubblicità mediatica dell’assistenza. Non ha fondato ordini religiosi, girava, da giovane, in t-shirt, pantaloni di tela, e su una moto Royal Enfield. Quando lo hanno premiato – anche con la Legion d’Onore – accettava solo in rappresentanza e per rispetto di quelle masse di poveri di “una dignità incredibile”. Era nato ricco, borghese, e con un fratello che sarebbe diventato, negli anni Settanta, presidente del “patronat”, la Confindustria francese. Ha agito fino ai 90 anni, percorrendo il sud dell’India, e organizzando una serie di soccorsi ai villaggi invasi, o travolti, dallo tsunami del 2004. È morto a 98 anni nella città di Chennai (ex Madras), capitale dello Stato del Tamil Nadu.
Nei tardi anni Trenta, a Madras, gli inglesi, ancora dominanti, hanno visto arrivare dall’Europa un sofisticato gesuita francese, di ottima famiglia, che, nella tradizione dei migliori missionari gesuiti, imparava in loco ogni cosa, per restarci. Padre Ceyrac è stato il primo straniero a insegnare il tamil e il sanscrito all’Università Loyola di quella capitale: lo aveva imparato in pochi anni. Subito dopo la guerra, allungato dalla testa ai piedi come una statua di Giacometti, aveva incontrato e parlato col magrissimo Mahatma Gandhi: la missione era decisa, vivere e agire per gli ultimissimi della nuova India.
La missione era fondersi con loro, anche a colpo d’occhio: liberarsi cioè della sottana bianca – una “divisa” che teneva una distanza – e girare in borghese, il più modesto. Anche qui, il contrario di Teresa di Calcutta, creatrice di un costume adattato (suore all’indiana), oltre che di un ordine carismatico.
Nel 1955, ottantamila giovani volontari dell’Associazione studenti cattolici indiani si davano da fare costruendo case e strade: erano spesso la prima casa, e le prime vie di comunicazione per migliaia di lebbrosi, o intoccabili, o poverissimi, o tutte e tre le cose. Ideatore e organizzatore era Pierre Ceyrac. Il raggio d’azione riguardava soprattutto la regione di Madras, larghissima, come tutto in India, e le sue bidonvilles. E dove, a 500 chilometri a sud, nasceva Manamadurai, la prima azienda cooperativa per dare lavoro e sussistenza. Nel 1969: tutto messo in piedi da Pierre Ceyrac e dai suoi volontari.
In forma molto efficiente, ma non istituzionale: per essere più libero, e anche più indiano fra quegli indiani, “Father Ceyrac”aveva smesso di presiedere quell’Associazione cattolica studentesca. Con la successiva operazione “Mille puits” (Mille pozzi) – con annessa campagna di volontariato – sarebbe riuscito a dare l’acqua, per la prima volta, a mezzo milione di persone; mentre il movimento “Mains ouvertes” (Mani aperte), nel 1991, avrebbe creato diversi, e stabili, luoghi d’accoglienza. Soprattutto per bambini e famiglie ai limiti della sopravvivenza.
Ceyrac era allora vicino agli 80 anni, e poco più di un decennio prima, la sua missione, fuori dall’India, era stata da pioniere morale, come sempre: si era trasferito sulla frontiera cambogiana-tailandese per accogliere le prime migliaia di profughi che fuggivano dal massacro di massa del regime khmer rosso. Una vita, delle imprese, da film: detto col massimo rispetto. Soprattutto un esempio su come certi, rari, “giusti”, scelgano con naturalezza la loro parte. Anche lontani, in più sensi, dalla Chiesa. Come spesso succede.
Matthew Yuricich
(19 febbraio 1923 – 28 maggio 2012)
Pittore e scenografo americano, di Lorain, Ohio, aveva 89 anni. Definito “un genio” nella sua specialità, e, insieme, “poco noto al grande pubblico”. Ma niente di incompreso: la sua arte è interna al cinema, ai “visual effects”, che non sono gli effetti speciali. Il loro nome – degli artisti come Yuricich – appare nei titoli di coda, e se non si è interessati alla materia, non li si legge.
La specialità si chiama “matte painting”, e una leziosa traduzione letterale indica “mascherino dipinto”. Che cos’è, e cosa vuol dire in un film? Molto semplicemente – o, nell’opera, tutt’altro che semplicemente – è un décor che lascia degli spazi vuoti dove sono incorporate molte scene filmate. Un effetto visivo che prepara o crea un’atmosfera, e un’azione.
La sua forza sta nel non essere un trucco speciale, o sbalorditivo, ma di derivare da una solida preparazione in scuole e materie artistiche: Yuricich, come altri del mestiere, è stato un laureato in “Fine Arts”, anche se questo non implica una pittura, o un décor, accademici. Nei fatti, quello spazio, e quelle visioni, sono una parte essenziale di un film, e diventare presto “un genio” in quell’arte può comportare una fila di committenze, di titoli, e di premi (anche Oscar). Tutto questo ha toccato Yuricich, e rileggendo alcuni suoi titoli più celebri, si potrebbe rivedere quei film con più attenzione ai particolari.
Il catalogo, stringato, è questo:
“Ben-Hur”, “Balla coi lupi”, “Blade runner”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, “Sindrome cinese”, “Gli ammutinati del Bounty”. Tutte primedonne della storia del cinema, e di genere assai diverso: una bella sfida per un “matte painter” passare da un’atmosfera all’altra, con una pari forza di rappresentazione. O di spazi da riempire.
Alla fine, il trionfo di un mestiere, più o meno visionario.