Se ne sono andati (anche la hippie controcorrente)

Se ne sono andati (anche la hippie controcorrente)

Muriel Cerf

(4 giugno 1950 – 19 maggio 2012)

Scrittrice francese, di Parigi, ha avuto due tratti immediati: era bellissima e con un talento narrativo già esaltato da André Malraux come «un dono di Dio». Nel 1974, a 24 anni, dopo aver percorso una parte dell’Oriente per definizione – India, Nepal, Thailandia – scriveva “L’Antivoyage”, il suo libro citato, da allora, come il più celebre e rivelatorio. Rivelava diverse cose: l’energia poetica (e non banalmente “misteriosa”) che l’India, in particolare, riversava sui milioni di occidentali che lì si sparpagliavano in lungo e in largo, la scelta di ascoltare quel Paese, e quegli “Orienti”, senza la comoda distanza dell’esotismo, e, alla fine, un’iniziazione personale a una scrittura lirica, e immaginifica, che non aveva niente di evasivo.

Creatura degli anni Settanta a colpi d’occhio che potevano bearsi di fronte ai suoi capelli sulle spalle, alla sua faccia, alla sua sensualità quasi anoressica, Muriel Cerf non ha “antiviaggiato” con la compulsione dello spinello, o di un “baba” didascalico, ma soprattutto intrecciando una sua lingua, e quindi una relazione, con quello che scopriva. Per esempio, rivela, racconta, e scrive, così: «Ho visto Devi, la sposa di Siva, lavare le sue mutande nelle fontane di Katmandu, ho visto Kalì, la nera, spidocchiarsi con la minuzia di una madre babuina (…), sono penetrata nel gineceo di Siddharta, prima che diventasse Buddha, quando ancora vegliava sul sonno delle sue donne…».

Molto in avanti questo intrecciare le visioni da fiaba con le vite reali di un mondo diverso, e le istantanee della memoria. Quasi una sceneggiatura, dove un’attrice potrebbe leggere quel testo come, alla fine di “Blade Runner”, fa Roy Batty, il povero replicante: «Io ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…». Gli umani – centinaia di migliaia – che in quegli anni viaggiavano in India per cercare cose diverse da quelle di Muriel (sostanzialmente, una fuga, e un’iniziazione, collettive), non combaciavano con quell’ “antivoyage”: è stato scritto che lei «era troppo bella, troppo borghese, e troppo individualista».

Ma oggi, dopo la sua morte, e dopo aver passato, ritiratissima, gli ultimi decenni, quel suo libro è stato riconosciuto come uno dei pochi “inni sgargianti” rimasti della cultura hippie, e della «follia dell’inizio degli anni Settanta». I libri che sono venuti dopo – da “Le Diable vert”, a “Primavera toscana”, all’ultimo, “La Petite coulotte” – hanno altri luoghi, epoche, e visioni, e i loro successi sono stati normali. Di routine, o quasi di traino, a quella scrittura inimitabile, e a lei stessa, irripetibile in tutto.

Le interviste di Muriel Cerf, dove di nuovo fluisce sulla sua vita, su come ha formato la sua lingua, su come, in complesso, ha tenuto botta, e sempre assai bella, sono una sgargiante “anticorrente”, rispetto a tempi in cui non si parla altro che di soldi, e di collassi finanziari, o statali. Parla di una vita, la sua, “dislocata”, dopo la morte della nonna materna con cui era cresciuta. Spiega il senso della sua scrittura, accostandola alle intuizioni musicali: «Le parole, quando vengono, non bisogna aspettare che si fissino. C’è una coerenza innata nei loro segni. E il testo, mentre si crea, va ascoltato».

Riconosce, alla “sua” India, il fatto di averle “rivelato la scrittura”. Cita, con passione infinita, i molti anni passati con il gatto Pithy, cita il suo matrimonio e il divorzio, e fa vedere le sue abitudini: «Non vado a letto prima delle tre, mi sveglio a mezzogiorno, bevo il caffè, e poi, in genere, scrivo». E precisa: «Non c’è niente di più sfinente della scrittura. Non credo abbia a che fare con i sogni, è anche una questione di forza fisica. D’altronde, da giovane mi ero data l’abitudine di una “piscine obligatoire”». 

Zvi Aharoni

(1921 – 19 maggio 2012)

Era israeliano, tedesco di nascita (di Francoforte), aveva combattuto nell’esercito britannico durante la Seconda guerra mondiale, è morto in Inghilterra dove era vissuto 24 anni. Aveva 91 anni, il suo nome originario era Hermann Arendt, ed è stato ricordato, con un certo rispetto, in due modi che definivano il suo mestiere e l’impresa centrale della sua vita: «The Israeli spy who first spotted Eichmann», e «The Israeli Mossad agent who was instrumental in the capture of Adolf Eichmann».

Era entrato nell’intelligence d’Israele subito dopo la nascita dello Stato: il Mossad e i suoi uomini (e le sue donne), soprattutto in quei primi anni, sarebbero diventati un marchio di autodifesa e di azione proverbiali. Per molto tempo, nell’immaginazione di chi odiava Israele e di chi era dalla sua parte, quei servizi sono restati un marchingegno da primato, che non sbagliava un colpo: più della Cia, e con una pubblicità più mitologica, o temuta.

Gli agenti israeliani avevano tre pesi in uno: essere a prova di errore, sotto-intendere alla sopravvivenza dello Stato (la sovraintendenza spettava a Tsahal, l’esercito, e naturalmente ai governi e ai cittadini che li eleggevano), presentarsi ai nemici come un deterrente sotterraneo e invincibile. In più, agendo sul passato prossimo, il Mossad investigava sui molti nazisti travestiti in una nuova vita, e sparpagliati nel mondo. In America Latina, in particolare. E in Argentina, nel dettaglio. E zoomando sulla sua capitale, Buenos Aires.

Dopo aver raccolto tutte le informazioni possibili, e ogni traccia: spesso fornite da Simon Wiesenthal, e dal suo Centro di ricerca, a Vienna. Ricardo Klement viveva da anni alla periferia di Buenos Aires, era un anonimo cittadino di mezza età, stempiato, miope, un po’ grifagno, e con le labbra strette. Adolf Eichmann – il braccio e la mente organizzativa dello sterminio di circa 400 mila ebrei d’Ungheria – era un criminale nazista di primo piano, sfuggito alla giustizia postbellica: un cinquantenne, miope, con la fronte diradata di capelli, naso aquilino, e con la bocca leggermente smorfiata da un tic.

Negli anni Cinquanta, da un Paese sudamericano – dove viveva coperto da una nuova identità – si era anche lasciato andare in considerazioni orgogliose del suo essere stato, e del suo restare un nazista. Quando Wiesenthal, alla fine di quel decennio, arrivò alla certezza che Klement combaciava con Eichmann, partì la spedizione del Mossad in Argentina. Molti libri l’hanno raccontata: un’operazione epica, delicatissima (un rapimento all’estero di un cittadino del Paese dove si andava ad agire), e dove non si poteva fallire.

Zvi Aharoni – che aveva anche il vantaggio di essere un ex tedesco – è stato l’agente che «alle due del pomeriggio» del 19 marzo 1960, ha identificato Eichmann sgombrando ogni dubbio sulla sua identità, e fotografandolo con una macchina nascosta in una cartella. Nel 2010, Rafael Eitan – ex comandante della spedizione – ha tenuto a sottolineare, in un’intervista, il ruolo centrale di Aharoni: «Ha avuto il merito maggiore nella riuscita dell’operazione. È stato così intuitivo, e poi preciso, nel trovare il posto dove Eichmann si nascondeva. E poi ci ha trasmesso un surplus di passione: insisteva sul fatto che dovessimo prenderlo, e giudicarlo in un processo storico. Senza Zvi, non ce l’avremmo fatta».

Aharoni ha, naturalmente, scritto un libro-memoria sull’impresa, «Operation Eichmann: Pursuit and Capture». Ma, soprattutto quello che è seguito, il processo a Gerusalemme, ha fatto Storia in più direzioni. Sul diritto a giudicare i crimini contro l’umanità (già stabilito a Norimberga), su un processo che apriva «l’era del testimone», sul fatto che si svolgesse in Israele, e quindi sul diritto di Israele ad essere pubblico accusatore e anche parte civile: in nome delle vittime della Shoah, e del popolo ebraico nel suo complesso.

Ha fatto Storia – e soprattutto materia di riflessione costante – il magnifico libro-cronaca di quel processo, titolato “La banalità del male”: dove Hannah Arendt – omonima di Zvi Aharoni – metteva anche in discussione la conduzione di quel processo (non il procedimento in sé, o la “criminalità amministrativa” di Adolf Eichmann). Va ricordato che Aharoni, dopo lo “spot” su Eichmann, aveva provato a stanare, nella jungla brasiliana, il dottor Josef Mengele – il medico serial killer di Auschwitz. Senza riuscirci: una ragione –come ha detto suo figlio Amram Aharoni – «di un ripetuto rimorso». 

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