Lo scorso febbraio l’editorialista di punta del Financial Times Wolfgang Münchau ha pubblicato un interessante articolo interrogandosi sul fatto che la Germania possa considerarsi un “BRIC” europeo. Come la Cina e l’India, la maggior economia del Vecchio Continente beneficia di record su record nelle esportazioni, e può contare su buone aziende manifatturiere, che spesso sfruttano i vantaggi di un costo del lavoro (relativamente) basso – anche se i lavoratori sembrano essere meno entusiasti della storia. A questo punto, non è una sorpresa se il rallentamento dei “veri” BRIC ispiri scetticismo anche rispetto alle possibilità di crescita della Germania, che al modello BRIC sembra ispirarsi.
L’idea è che le somiglianze tra la Germania e i BRIC debbano valere sia nella buona, che nella cattiva sorte. In quest’ultimo senso, Daniel Altman su Foreign Policy ha citato il principale motivo di preoccupazione riguardo all’economia tedesca. In un bell’articolo dall’orrendo titolo (“No Special Sauce on This Currywurst”, sic), dopo l’abituale lode alle riforme del mercato del lavoro negli anni Duemila, Altman aggiunge che il costo del lavoro nell’ex-Germania Est ha ormai quasi raggiunto quello dell’Ovest, e che questo potrebbe portare a un rallentamento: «gli stipendi nell’Est sono quasi al livello dell’Ovest, e presto il vantaggio nelle esportazioni scomparirà». Questa è classica economia deterministica. Un rallentamento dovuto all’aumento dei costi del lavoro ha causato la fine del Boom italiano degli anni Cinquanta, e anche della coeva “Wirtschaftswunder” tedesca. L’incidente si ripeterà anche nella Germania anno 2012? Probabilmente no.
Il punto è che (meraviglia delle meraviglie) la Germania non è un BRIC. Le sue aziende sono più grandi, i suoi lavoratori sono pur sempre più costosi e preparati, e il sistema produce beni a maggior valore aggiunto rispetto ai BRIC. La situazione attuale è totalmente diversa rispetto a quella delle grandi economie europee di sessant’anni fa. Allora era importante contenere i costi di produzione di beni semi-artigianali riducendo i costi del lavoro (si pensi agli operai col cacciavite in mano al Lingotto della FIAT). Oggi, se consideriamo le industrie tedesche che esportano verso Cina ed Europa, possiamo osservare come i costi del lavoro rappresentino solo una quota minima del costo totale. Nel settore automobilistico si tratta di un mero 10% del costo di produzione – che, peraltro, è più basso rispetto al prezzo di mercato, visto che Volkswagen riesce nel compito impervio di realizzare un profitto sulle auto che vende. Percentuali ancora più basse caratterizzano le industrie della meccanica e della chimica.
Inoltre, le riforme del lavoro nella Germania Est non hanno guidato una completa e totale rinascita del settore manifatturiero nella regione. È vero che alcune aziende hanno aperto bottega nell’Est (tra esse, BMW e Mercedes), ma l’hardcore è ancora in Baviera e Baden-Wurttemberg. Uno studio del 2010 ha calcolato che i cinque stati dell’ex-DDR esportavano beni per 3.100 euro a persona, mentre nell’Ovest la quota era di 8.000 euro. Soprattutto, la Germania finora ha potuto contare su una posizione vantaggiosa in termini di accordi monetari: la storia dell’euro devalutato che sostiene le esportazioni è nota. È qualcosa su cui la Cina può contare solo parzialmente: in questo senso dobbiamo interpretare gli sforzi per mantenere basso il renmimbi. Possiamo accusare le economie meridionali, che anziché riformarsi hanno preferito perder tempo con i giochi olimpici e le olimpiadi sessuali del premier. Alla fine, però, il 6.5 percento di disoccupazione tedesco non si giustifica solo con i successo delle riforme. Nel maggio del 2012 la disoccupazione in Baviera era al 3,5%: è troppo poco perfino per la Baviera. La disoccupazione viene trasferita dalla Germania meridionale all’Europa meridionale. Un evidenza di questo è il fatto che l’inflazione non sia ancora esplosa, nonostante tutto (e nonostante i tassi d’interesse bassi e pure da tanto tempo)
Il vero rischio per la Germania proviene da fuori. Un rallentamento dei BRIC e dell’EU sarebbe (o sarà) fatale per la crescita tedesca. Lo stallo politico e l’epidemia di testardaggine che ha colpito il cancellierato rendono impossibile la soluzione della questione euro. La Germania proverà a cavalcare l’Inda finché potrà, e nel frattempo cercherà di sostenere la domanda interna (cosa che eventualmente sta funzionando). Cercherà di concentrarsi ancora di più sulle produzioni a valore aggiunto, e sulla riduzione dei costi di produzione extra-personale. Insomma, sta cercando di fare ciò che la Cina tenta di realizzare da anni. Sembra cioè che la Germania, anche se non è un “BRIC”, possa comportarsi da “BRIC di lusso”, con problemi diversi rispetto alle quattro economie emergenti, ma soluzioni simili.