L’ossessione Zeman non finisce mai: mentre è in procinto di tornare alla Roma dove lo aspettano come un salvatore della patria, la sua casa in Abruzzo viene svaligiata dai ladri. La festa a Pescara è finita? E perché tutto questo delirio di attenzioni? Per molti tifosi sulla barricata calcistica degli anni Novanta c’è stato solo Zeman, quello di cui l’Avvocato Agnelli disse perentorio “no, non lo prenderei, non mi piace come allena la squadra”. Il suo calcio sembra essere l’unico degno di stupore e idolatria. Nessuno infatti ha mai raccontato il Cagliari di Bruno Giorgi che arrivò a sorpresa alla semifinale di Coppa Uefa (1994) schierando a centrocampo Allegri. Neanche il Vicenza di Guidolin è stato mai celebrato eppure vinse la coppa Italia (1997) e venne sconfitto in semifinale di coppa delle Coppe dal Chelsea di Zola e Vialli. Rimosso anche il Parma di Nevio Scala vincitore della coppa delle Coppe (1993) e di quella Uefa (1995). Il carisma dell’allenatore boemo senza successi resiste invece al passare del tempo come un brand vintage, nonostante anni di esilio, fallimenti sparsi e quell’Italia juventina che non gli ha ancora perdonato le allusioni alle farmacie e ai muscoli di Vialli e Del Piero nell’intervista a “l’Espresso” nel 1998. Una battaglia che gli è costata la carriera ma che lo ha eletto a simbolo anti-Palazzo.
Con la risalita del Pescara in serie A, il partito trasversale di Zeman è tornato alla carica portando in dote molto più di un campionato cadetto appena vinto. Già pronta la definizione: “Zeman è il leader del movimento cinque stelle del calcio” (Ivan Zazzaroni, GQ). È davvero così? Nonostante il successo locale di Parma, lo scetticismo verso le capacità di Grillo come politico nazionale è ancora forte. È lo stesso elastico che accompagna Zeman dagli esordi. A differenza di Grillo però, che dopo Stalingrado ha dichiarato di sognare Berlino, Zeman ha già avuto l’esperienza della grande piazza dove le potenzialità si sono scontrate con pressioni ed esigenze molto forti. È accaduto a Roma, capitale che lo ha esaltato sulle panchine di Lazio e Roma ma poi lo ha consumato, divorato, infine cacciato. E che ora dopo più di dieci anni lo rivuole, sponda giallorossa, con lui che ammette: “è vero, la Roma mi fa vacillare”.
Eppure in barba agli anni di Roma è ancora Zemanlandia (1989-1994) il suo salvacondotto sportivo, la grande stagione di Foggia che è stata celebrata anche dal mondo della cultura con il doppio dvd pubblicato da minimum fax a cura di Giuseppe Sansonna, da una ospitata da Fazio a “Che tempo che fa” per mostrare il lato “dolce e tenero” al pubblico femminile, e infine dall’omaggio della copertina di “Alias”, il supplemento culturale del manifesto con una doppia pagina interna tutta dedicata al boemo. Si preferisce insomma ricordare l’immagine di uno Zeman riverito e osannato a Foggia, dove la vita del profeta in patria fu piuttosto facile – fatta di poche aspettative e tanto entusiasmo -, piuttosto che guardare con realismo a Roma dove l’allenatore ha mostrato le corde del suo credo. Peccato, perché oltre l’eterna promessa di gioco si scoprirebbe che i fallimenti non sono serviti a Zeman per correggere il tiro, semmai lo hanno convinto ad andare ancora più a fondo, per la sua strada. Anche questo fa parte del marchio Zeman, più filosofo che scienziato. Chissà come si sarebbe comportato Grillo al posto del boemo.
Alla Lazio lo volle Cragnotti nel 1994, primo torneo con i tre punti, un posto solo per la Champions. Zeman ritrova Signori, da due anni capocannoniere con 49 gol. Tutta la dote laziale è di livello: quarto posto, Zoff allenatore, 35mila abbonati. Gascoigne è ancora infortunato ma Casiraghi, Signori e Marchegiani sono vicecampioni del mondo. In azzurro finiscono anche Fuser, Rambaudi, Di Matteo, Negro, Favalli e Nesta (questi ultimi tre con Eriksson vinceranno scudetto e coppe). Boksic, Winter e Chamot sono nazionali titolari. Con Zeman Signori vince il terzo titolo di cannoniere, la Lazio segna 69 reti ed è record per il campionato. Otto gol alla Fiorentina, sette al suo Foggia, 5 a Padova e Napoli, tre a zero esterno alla Juve dopo 31 anni. Zeman stecca il derby d’andata per la felicità di Mazzone che esulta sotto la Sud, ma si riprende quello di ritorno. Alla fine ottiene un secondo posto ma a dieci punti dai bianconeri che hanno già ipotecato la vittoria da tempo. In Europa il Borussia lo ferma ai quarti. La Primavera che ha appena vinto lo scudetto gli darà Nesta titolare e Di Vaio in panchina.
L’anno dopo arriva terzo a 14 punti dal Milan, il 4 a zero con la Juve di Lippi all’ottava giornata inganna. Nelle coppe esce presto, non si scompone e continua a fumare davanti alle telecamere. L’infortunio di Marchegiani pesa molto, qualche dirigente vorrebbe Scala ma Zeman recupera nel finale e ha la meglio. Vince un derby grazie a Signori e per il quarto anno consecutivo la Lazio arriva sopra la Roma. Il monte ingaggi sale, Boksic (che accuserà Zeman per i carichi di preparazione) e Winter vogliono più soldi e vanno via. Arriva Nedved, Cragnotti fa annusare al boemo l’ipotesi Ronaldo. Zeman non batte ciglio, “Davanti siamo coperti…”, e continua a cavalcare la sua utopia.
È a fine ottobre del 1996 che si consuma lo strappo. La Little Big Horn di Zeman è Tenerife, ritorno di Coppa Uefa. Signori suggerisce di difendere lo zero a uno dell’andata e Zeman risponde: “Se Signori pensa questo è preoccupante”. Finisce che la Lazio ne fa tre ma il Tenerife cinque e passa il turno. Qualcuno parla di “immortale vulnerabilità” della Lazio zemaniana. Signori confessa: “Realizzati tre gol in trasferta, nessuna formazione al mondo si sarebbe fatta sbattere fuori”. Anche Fuser sbrotta: “Stavolta le colpe non sono dei giocatori, vanno cercate altrove. Pazzesco. E per quanto riguarda l’atteggiamento tattico, chiedete all’allenatore. Inutile alludere ad atleti svogliati, che non lo seguono negli allenamenti. Gli svogliati restano a casa, non si portano a Tenerife”.
Il 26 gennaio 1997 dopo una sconfitta interna contro il Bologna Zeman viene esonerato. “Senza Lazio sono un uomo distrutto, non sono mai stato peggio di così. Sono deluso, ma non da me stesso: alla Lazio ho dato sempre tutto quello che potevo dare. Avrò pure fatto qualche sbaglio: il principale è quello di non essere stato abbastanza convincente”. La Lazio in mano a Zoff risale dal dodicesimo al quarto posto, perdendo due partite in sedici incontri. Signori arriva a 105 gol. Ancora sopra la Roma. Ma la Lazio di Zeman è finita.
A sorpresa il 6 maggio del ’97 Franco Sensi convoca Zeman, dopo il no di Trapattoni. Il grande tradimento segue la grande delusione, il passaggio è un peccato di narcisismo: “Come dovrei sentirmi? Io non cambio, sono fatto sempre allo stesso modo. Credo nel lavoro. Credo nelle mie idee”. Promesse ai tifosi? “Nessuna”. Quando gli chiedono se in caso di scudetto smetterebbe di fumare, la risposta è “no”. Dopo gli anni di Mazzone e il fallimento Carlos Bianchi, a salvare la Roma dalla bassa classifica era stato richiamato addirittura Nils Liedholm. Poi la scelta del boemo. Anche tra i giallorossi ci sono otto futuri vincitori dello scudetto del 2001: Aldair, Cafu, Candela, Tommasi, Di Francesco, Totti, Delvecchio e Balbo.
Nonostante i 67 gol fatti, a Trigoria soffia aria di contestazione. È l’anno dello slogan “Franco Sensi bla bla bla”. La Roma è fuori dalle coppe ma arriva quarta, sopra la Lazio che vince la coppa Italia. Zeman riesce a perdere quattro derby in un anno, compresi quelli di coppa. Il primo della serie a novembre: Favalli espulso già dopo sette minuti ma Zeman non ne approfitta. Anche con la Roma in superiorità per più di un’ora finisce 3-1 per la Lazio. Al raddoppio di Casiraghi la curva Nord si ricorda di lui e lo sbeffeggia: “Facci un saluto, boemo, facci un saluto”. Al derby, al solito, dà poca importanza: “Non credo che questa sconfitta, per quanto pesante, azzeri tutto il lavoro svolto finora. Il problema, invece, è che molti la penseranno in questo modo”. Il “Pupone” Totti ha finalmente spazio e riceve la prima convocazione nella nazionale di Zoff. Più tardi rivelerà: “All’inizio tutti mi parlavano male di lui. Poi le cose cambiarono”.
Nel 1998 la contestazione va avanti, si accusa Sensi di non voler spendere. Alti e bassi, Zeman si difende: “Fate pure, parlate pure. Tanto ho capito una cosa. Quando la Roma vince, si dice che Zeman è cambiato; quando perde, Zeman è sempre lo stesso… Manca equilibrio, anche quando si valutano i giocatori di questa Roma: dopo una sconfitta sono delle schiappe, dopo una bella vittoria sono tutti Pelè”. A marzo contro il Bari cartellino rosso al portiere Konsel e Zeman toglie Balbo, migliore in campo, che lo insulta: “Sei un laziale figlio di puttana”. Anche il clan brasiliano è contro l’allenatore. Totti, Di Biagio e Tommasi restano fedeli. In tribuna si accusa Zeman di non saper gestire le gare. Riemergono i vizi delle tre stagioni laziali. In coppa Uefa arriva solo ai quarti. In estate arriva lo sconosciuto argentino Bartelt per 13 miliardi, sfuma Trezeguet. In precedenza, soffiato Stankovic dalla Lazio, era arrivato Tomic, “più lento di un cespuglio” secondo la curva Sud.
Poi Zeman fa esplodere la bomba doping: a luglio qualche accenno sul Messaggero, ad agosto vuota il sacco a l’Espresso. Una vicenda che si trascinerà dietro per un anno intero e che per Zeman condizionerà tutto il resto della carriera con gli esoneri di Napoli, Salernitana e Lecce, e i mancati ingaggi con Bologna e Palermo. Secondo Zeman è tutta colpa di Moggi. La Roma arriva sesta, ma che fatica. Sensi protesta per due rigori contro a Udine, è guerra contro il Palazzo. Il capo degli arbitri Gonella assicura che anche secondo la moglie il rigore c’era. Zeman incalza: “Per mia moglie invece non c’era”. L’incubo di Tenerife ritorna in casa contro l’Inter allenata da Roy Hodgson, quarto allenatore in un anno dopo gli esoneri di Simoni, Lucescu e Castellini. Prima della gara Zeman confessa: “Perdiamo. Anziché allenarsi, in questa settimana, i miei giocatori pensavano solo ad andare in sede per parlare del loro futuro”. La Roma va sotto di due gol, chiude il primo tempo 3-1. Poi pareggia 3-3 e riacciuffa anche il quarto gol dell’Inter. Ma Simeone all’ultimo fissa il punteggio sul 4-5. Zeman si sfoga: “Mi hanno dato del coglione. Alla fine di una partita con otto gol, gli altri erano tutti fenomeni. Da ridere”.
A ridere a fine stagione non è Zeman. Sensi se ne sbarazza in malo modo, arriva Capello e il presidente della Roma rinnega l’indipendenza del boemo: “Il nuovo mister ha la personalità vincente e riceve più rispetto da parte del Palazzo. Noi crediamo molto nei benefici determinati dal suo avvento”. Franco Melli, cronista laziale innamorato del boemo, commenta sconsolato sul Corriere della Sera: “Sensi, Liedholm e gli altri dirigenti tradiscono improvvise emozioni. Si brinda a champagne. Dell’utopia passata, non resta traccia”. Il Corriere dello Sport saluta Zeman con una pagina intera pagata dai giornalisti. È finita un’epoca.
A ottobre ’99 Zeman racconterà così l’esonero in un’intervista: “Quando sono stato esonerato dalla Lazio c’era una ragione. Un allenatore che non vince si cambia. Con la Roma no. I risultati mi davano ragione. Sensi in estate, prima di salutarci, mi aveva detto di lasciar perdere con l’Italia, un paese in cui non potevo allenare per un po’. Ma poi in Italia non mi aveva contattato nessuno. Avevo rifiutato anche il Barcellona per restare alla Roma. Ma non ho rimpianti”. Alla domanda se sia davvero un allenatore tanto scomodo Zeman risponde: “Bisogna vedere per chi. A tanti ho fatto comodo”. A molti tifosi pure, compresi quelli che lo reclamano oggi a Roma.
È dunque ancora febbre Zeman, usata per esorcizzare parecchi vuoti (il progetto Luis Enrique fallito, la prima stagione fuori dalle coppe dopo 15 anni, la società costretta a un aumento di capitale di 50 milioni di euro, la supremazia cittadina a sfavore dal 2011) e riempirli con un personaggio feticcio, la cui unica garanzia rimane però la fedeltà a se stesso e non ai tifosi. Una dote che nelle stagioni anonime seguite alla cacciata da Roma, ha fatto diventare definitivamente Zeman un mito, proprio perché sconfitto e allontanato dal calcio che conta. Un mito che si è alimentato episodicamente con l’amarcord di Zemanlandia e più in generale con l’elezione a spartano antidoto all’industria del pallone. Quindi, complice l’ultimo campionato a Pescara, non a caso lontano dalle grandi piazze, la filosofia di Zeman è diventata per estensione un principio quasi politico, ovviamente anti-casta, da riportare in serie A.
C’è chi aggiunge infatti che Zeman è “l’allenatore del popolo incazzato”, l’uomo giusto “per un mondo del calcio senza soldi e con gli stadi vuoti”. Però è anche vero che si allena una squadra per volta. E fuori da Pescara come da Foggia, ancora una volta i tifosi chiederanno a Zeman di andare oltre l’essere il silenzioso outsider di un mondo cialtrone e corrotto. Gli chiederanno di vincere. Un po’ come se Grillo si candidasse a Milano, o a Palazzo Chigi. Non basterebbe più convincere gli aficionados del blog. Per ora da Pescara Zeman ha già avvisato tutti: “Io qui sto bene. Ma se qualcuno vuole farsi del male…”